Nei musei i tesori soffocano tra audioguide e selfie il gesto geniale e clandestino ha smosso acque stagnanti
Il Louvre è un tempio. Un tempio vero, con i sacerdoti in giacche blu, il culto della fila, le reliquie guardate da lontano come icone sacre dietro vetri antiproiettile.
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È lì che si officia il rito della Storia dell’Arte, maiuscola come un sermone domenicale. Ciò che è successo pochi giorni fa tra quelle mura sacre, quel furto rocambolesco che ha fatto sobbalzare i direttori dei musei di tutto il mondo, ha avuto un sapore particolare: una specie di preghiera eretica, un Kyrie degli insubordinati.
I giornali hanno subito alzato il sopracciglio: come osa qualcuno sottrarre un pezzo al Pantheon della Bellezza Universale? Eppure, sotto sotto, nella pancia molle del discorso pubblico, un sentimento sgusciava, sornione, a favore dei ladri.
Diciamolo: oggi chi ruba al Louvre non è più un criminale, è un trickster, uno di quegli archetipi ribelli che la mitologia ci ha insegnato ad amare.
Robin Hood in versione curatoriale. Arsenio Lupin che sussurra ai marmi. E forse, paradossalmente, un amico dell’arte. Il Louvre, quel colosso che attira dieci milioni di pellegrini l’anno, è diventato un’attrazione turistica di massa, più simile a Disneyland che a un laboratorio della visione. Le opere soffocano, intrappolate tra audioguide che gracchiano e selfie stick che minacciano.
La Gioconda non ha più un volto, ha solo una coda infinita di gente che la fotografa per non guardarla. Nei grandi musei l’arte è diventata un trofeo, un timbro sul passaporto del viaggiatore internazionale: «ci sono stato», timbra, «ho visto», timbra.
Ma chi vede davvero? Il furto, improvviso come una risata fuori posto in chiesa, ha incendiato quella domanda: l’arte è proprietà o esperienza? È materia da custodire sotto chiave o scintilla da liberare, anche a costo di perderla? E i musei, che cosa sono oggi i musei?
Depositi asettici, cliniche museografiche dove i pazienti non guariscono mai. Si entra per una cura estetica e si esce più pallidi di prima. E allora un furto, se ben congegnato e soprattutto ben narrato, scuote le acque stagnanti come una sirena dentro un acquario.
Ci ricorda che i quadri non sono nati per stare immobili. Che la storia, per funzionare, ha bisogno di colpi di scena. I direttori, intanto, tremano. Non per l’opera sottratta, che tanto l’assicurazione copre, ma per ciò che rappresenta: la conferma che il museo-mastodonte è un dinosauro in riserva naturale, destinato a sopravvivere come reperto di sé stesso.
E il pubblico, dal canto suo, festeggia in silenzio. Quando si parla di musei derubati, l’indignazione è sempre un po’ finta, come un abito troppo stretto. Perché tutti sanno che dietro quei portoni di marmo giacciono tesori strappati a qualcun altro.
Collezioni coloniali travestite da pedagogia. Ricchezze storiche sottratte con la stessa nonchalance dei ladri, solo con timbro e documento ufficiale. Il museo nasce dal furto, e il ladro non fa che ristabilire un po’ di equilibrio karmico. Il bello, poi, è che nessuno ricorderà il nome dell’opera rubata. Ciò che conta è il gesto, la performance, il colpo di teatro.
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C’è più arte in una fuga sui tetti di Parigi che in molti dipinti catalogati. L’azione ladresca è diventata azione concettuale involontaria, una critica istituzionale svolta con la torcia elettrica e l’agilità di chi salta le corde d’allarme invece delle lezioni universitarie. Se vogliamo buttarla in politica, ecco, possiamo dire che con la sua dolce inclinazione alla giustizia poetica, più che un criminale il ladro sembra uno di noi che ha deciso di alzare la posta del lamento populista quotidiano.
Uno che vale uno, ma anche molti di più. Un eroe del popolo in guanti bianchi, che scavalca l’ingiustizia con la stessa agilità con cui scardina una teca. Nel fulmineo momento del furto, la supremazia museale traballa. Il tesoro rubato diventa una vendetta pop su chi ha messo il bello in cassaforte e il brutto in piazza. Perché arte, bellezza e ricchezza qui sono un tutt’uno.
E nel gesto sfrontato, un po’ da film anni Settanta, si libera un desiderio antico: che le cose più belle tornino a camminare per la strada, a sporcarsi le mani, a ridere sotto la pioggia. Il ladro dei tesori di Napoleone ha rubato al potere la sua sicurezza.
E il Louvre, gigantesco come una nave da crociera arenata nella storia, ha scoperto improvvisamente che l’arte non si addomestica. Si può esporre. Si può illuminare. Ma ogni tanto, grazie a uno scatto geniale e clandestino, scappa. In fondo, la simpatia per i ladri è tutta qui: loro danno all’arte ciò che i grandi musei le hanno tolto. Il brivido, il mistero, la libertà.
La possibilità che un quadro scompaia, che sia desiderato, inseguito, che se ne parli non perché lo si è scorto da lontano, ma perché qualcuno lo ha amato così tanto da decidere di portarselo via. Che cosa ci dice allora il furto al Louvre? Che l’arte respira ancora.
Che nonostante biglietti contingentati, percorsi obbligati, codici QR e scaffalature museali, la bellezza può ancora scappare. E quando lo fa, ci lascia con un sorriso un po’ colpevole, da complici ingenui di una cospirazione romantica: l’idea che una buona storia valga più della teca che la contiene.









