15 Dicembre 2025

Direttore: Alessandro Barbano

28 Ottobre 2025

Adesso risparmiateci i santini della libertà di stampa

Il caso del conduttore di Report e la sanzione del Garante per la privacy riaprono una domanda essenziale: fino a dove può spingersi l’informazione, prima di trasformarsi in violazione?

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Nell’ultima querelle tra il conduttore di Report, Sigfrido Ranucci, e il Garante della privacy, che lo ha sanzionato, c’è una domanda pregiudiziale, alla quale dobbiamo rispondere, se vogliamo sottrarci a una polarizzazione che inquina il dibattito pubblico e trasforma il Paese in un’arena di tifoserie contrapposte.

Una domanda semplice e scomoda, che non risparmia nessuno: né le classi dirigenti, né gli intellettuali, né i corpi intermedi: era giusto trasmettere la confessione privatissima – e furtivamente registrata dall’amante – di un tradimento coniugale, come quella fatta dall’ex ministro Gennaro Sangiuliano alla moglie?

La notizia rispettava l’essenzialità dell’informazione? Rispondeva cioè a un interesse pubblico alla conoscenza della verità? Era quell’interesse prevalente su una privatezza, riguardo a una relazione intima, che dal 1996 tutti i codici della privacy e tutte le pronunce della magistratura e delle Authority antepongono al diritto di sapere i fatti altrui?

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Per tradurre in termini ancora più concreti, la confessione dell’infedeltà coniugale di Sangiuliano era decisiva rispetto all’accertamento di una sua responsabilità politica, o di altra natura, secondo un sostenibile criterio di notiziabilità?

E se pure lo era, quell’accertamento poteva violare, nel modo più invasivo che si conosca, una sfera intangibile di riservatezza della moglie del ministro e del ministro stesso?

Se vogliamo sottrarci alla tentazione di pensare e agire come ciechi odiatori da social network, dobbiamo rispondere a questa domanda. Vale per le tre professioni del racconto pubblico in Italia. Per i politici, e tra questi gli esponenti del Pd, che adombrano il sospetto collateralismo dell’Autorità garante, che ha sanzionato Ranucci, con Fratelli d’Italia. Vale per i giornalisti di parte, che in queste ore su quel sospetto ricamano. E vale per i magistrati, che hanno arruolato il conduttore di Report, in quanto simbolo della libertà di stampa in pericolo, nella battaglia corporativa contro la riforma della giustizia.

Quindici anni dopo gli scandali sessuali di Berlusconi, esibiti in tv come prova della sua indegnità politica, la stessa domanda interpella l’opposizione.

E le risposte fin qui giunte sembrano eluderla. Non solo la elude Elly Schlein nell’intemerata con cui fissa l’apodittica equazione tra i governi di destra e una minaccia per la libertà di stampa. Ma la eludono l’intera opposizione e la magistratura associata, quando santificano il conduttore di Report. Che merita, intendiamoci, la massima solidarietà e la più attenta protezione per l’attentato subito, ma non può in nessun modo rappresentare un modello di etica del giornalismo.

Ci sono decine di discorsi pubblici e atti parlamentari, di sentenze del garante e della magistratura, fino ai più alti livelli, che spingono verso il rafforzamento della riservatezza quale parte di una compiuta tutela dei diritti individuali.

Dagli stessi ambienti si levano appelli al rispetto di un’intercapedine di riserbo che assista anche i personaggi pubblici e senza la quale la nostra democrazia sarebbe nuda di fronte allo scandalismo. È paradossale che molti di quei magistrati, che in sede giurisdizionale hanno fissato questi principi con coerenza, in sede sindacale innalzino a simbolo del «buon giornalismo» un violatore sistematico delle stesse regole, autore di inchieste a tesi che si trasformano spesso in teoremi investigativi non assistiti dal contraddittorio e meno che mai dal dubbio.

E che non si pongono, come nel caso di Sangiuliano, alcun limite rispetto all’obiettivo di mettere alla gogna il proprio bersaglio d’inchiesta.

È legittimo chiedersi se la libertà di stampa sia in pericolo in Italia, a patto d’intendersi sul suo significato con un minimo di profondità. A patto cioè di riconoscere che essa stia nel bilanciamento tra tre diritti in relazione, e talvolta in contrapposizione tra loro: quello dei soggetti di cui si parla, quello dei cittadini utenti e quello dei media.

Sotto questa luce la minaccia alla libertà di stampa può certamente venire da molte fonti: da una maggioranza che coltivi tentazioni illiberali e securitarie, da un governo che si sottragga a un confronto aperto con le domande dei giornalisti e occupi con personale di stretta osservanza gli spazi dell’informazione pubblica, ma anche da un’opposizione ispirata dal pregiudizio e dal conformismo, che persegua il disconoscimento dell’avversario con ogni mezzo e giustifichi, in ragione di questo risultato, la violazione di obblighi di correttezza deontologica. La risposta che noi sentiamo di dare a questo quesito è che sì, la libertà di stampa in Italia è in drammatico pericolo: perché il giornalismo ha smesso di essere un percorso di conoscenza che punti a mettere in discussione per prima cosa le ipotesi da cui esso stesso parte, e ha preso a essere un ravanare nel bidone di coloro che elegge come avversari, a caccia di contraddizioni utili a screditarli.

Con l’effetto di alzare sulla democrazia un polverone di illazioni, sospetti e accuse che inquinano la vita pubblica, di anteporre così i feticci della polemica di parte ai problemi dei cittadini.

La libertà di stampa è in pericolo perché il rumore di fondo di una contrapposizione patologica oscura e impedisce un dibattito serio sulle questioni più rilevanti della società. Ma più di tutto è in pericolo perché gli stessi che ne denunciano la compressione più o meno consapevolmente la calpestano, incapaci come sono di distinguere la sottile linea di confine tra il diritto di sapere e il diritto di non essere gratuitamente violati.

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