La premier governa da tre anni. Ma si sottrae a conferenze stampa vere, preferendo monologhi, interviste protette. È una postura che rassicura la base che la condanna a un doppio binario: statista fuori dai confini, tribuna in patria
Ha ragione Ernesto Galli della Loggia quando, ieri sul Corriere della Sera, accusa la sinistra di agitare il feticcio del «fascismo di ritorno». Ma vede solo una parte del sistema. Perché la malattia è speculare: al fantasma della «democrazia a rischio» evocata da Elly Schlein, Giorgia Meloni risponde alimentando la polarizzazione, e rinunciando alla sfida più alta, che pure sarebbe alla sua portata: quella di pacificare il Paese.
Ha ragione Galli della Loggia quando denuncia la deriva moralistica dell’opposizione, che non riesce ad accettare la democrazia come gara fra le idee, che vive nel mito di una nuova Resistenza, che confonde l’offerta politica con un giudizio etico sull’avversario. Ma l’acuto editorialista di via Solferino sembra ignorare quanto concorra Meloni nell’offrirsi a bersaglio di una contrapposizione che rappresenta una trappola mortale per la politica.
La premier governa da tre anni. Ha sorpreso scegliendo e consolidando l’ancoraggio euroatlantico, rimettendo i conti in ordine, avviando riforme non irrilevanti come quella della giustizia. Ha ottenuto rispetto internazionale, si muove da statista a Bruxelles e nelle capitali europee. E ha conservato, anzi rafforzato, la luna di miele con l’elettorato.
Ma la sua esposizione pubblica in patria, nelle sedi istituzionali e mediatiche, tradisce la percezione di essere ancora all’opposizione.
Alimenta una retorica identitaria e vittimaria, trasforma la critica in ostilità, si sottrae alle conferenze stampa vere, preferendo monologhi o interviste protette, malcela diffidenza verso i corpi intermedi e le voci indipendenti.
È una postura che rassicura la base, ma la condanna a un doppio binario: statista fuori dai confini, tribuna in patria. Stupisce che una leader a tutto tondo continui a non individuare il passo più importante, l’obiettivo strategico di pacificare il Paese. Che vuol dire trasformare il consenso in un’operazione di maturità democratica, smettere di governare come se si fosse ancora all’opposizione, accettare anzi che la propria egemonia sia messa in discussione e sottoposta alla critica, e perfino alla satira, affinché da questo confronto ne esca ridimensionata e allo stesso tempo rigenerata.
Vuol dire, ancora, restituire al conflitto politico la sua dimensione normale, competitiva, ma non distruttiva.
E perciò abbassare i toni, riconoscere la legittimità degli avversari, accettare che corpi intermedi, stampa, cultura non siano per definizione ostili ma esercitino una funzione di indipendenza, rinunciare a condizionarli con personale di stretta osservanza.

Significa, da ultimo, misurare la forza non sulla capacità di ridicolizzare la minoranza, ma sulla capacità di parlare anche a chi non la pensa come te.
Meloni continua a usare la tribuna come la piazza. Parla come se fosse sotto assedio. Questo doppio binario è la cifra del suo limite. Si dirà che la pacificazione si fa in due. Che i primi a innescare la delegittimazione reciproca sono i politici d’opposizione, concentrati a costruire trappole, a denunciare gaffe, a censurare toni politicamente scorretti.
Si dirà, ancora, che questa contrapposizione permanente scopre un’involontaria e paradossale complicità tra i contendenti, offrendo a Meloni il vantaggio di un’opposizione inadeguata, che copre con l’invettiva moraleggiante il vuoto di idee, condannata a perdere.
Ma conviene davvero, a chi governa, un’opposizione così? Se davvero Meloni vuole portare l’Italia «in serie A», deve disarmare il linguaggio della politica, uscire dalla logica binaria, nelle parole usate e nelle scelte. È questa la grande riforma civile di cui il Paese ha urgente bisogno.

Non si impone in Parlamento e nelle urne, ma anzitutto nella relazione con l’avversario. Meloni ha la forza, la responsabilità e l’occasione per provarci, rinunciando a reagire ai colpi subiti, pur di spezzare la catena reattiva della polarizzazione patologica che affligge il Paese da ormai tre decenni. E dalla posizione di forza che occupa, ha il dovere di sfidare l’opposizione a fare altrettanto.









