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Roccella: «Educazione sessuale, affidi e natalità. Famiglia prima di tutto»

Al forum dell’Altravoce la ministra della famiglia e delle pari opportunità si espone sul ddl minori, sui femminicidi e sulla crisi demografica

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Ministra Roccella, partiamo dal ddl minori. È un provvedimento che nasce sull’onda emotiva dell’inchiesta di Bibbiano?

«Noi non siamo partiti da Bibbiano, ma dalla mancanza di dati dettagliati sugli affidi, che sono fondamentali per capire dove è urgente e utile intervenire. Non abbiamo dati sulle famiglie disponibili all’affido e ne servono di più sulle strutture di accoglienza e sulle case-famiglia. Il nostro è un intervento minimo per capire dove investire. Inoltre, si parte dai dati anche per capire quali sono i casi di allontanamenti inappropriati o troppo lunghi. L’affido è potenzialmente una grande soluzione e in linea con i nostri principi: sono famiglie che aiutano altre famiglie».

Questa è la vostra filosofia. In concreto cosa c’è nel provvedimento?

«Sono previsti dei registri e un osservatorio. In particolare è previsto un registro all’interno dei tribunali dei minori per sapere in maniera dettagliata quanti sono i minori che vengono allontanati e quanti, tra questi, con l’uso della forza pubblica, che dovrebbe essere una extrema ratio».

Qui si confrontano due linee di pensiero: una liberale, che dice che una famiglia malata è sempre meglio di una non-famiglia, e una di matrice collettivistica, che teorizza la riprogrammazione affettiva del minore attraverso la mano pubblica. In Calabria si è arrivati alla decisione di magistrati che hanno stabilito che i bambini andavano allontanati dalle famiglie mafiose a prescindere, perché il contesto li avrebbe danneggiati. Qual è la vostra posizione?

«È che la famiglia non vada depauperata. I suoi compiti educativi e affettivi non devono essere trasferiti ad altre agenzie educative. Questo non vuol dire che le famiglie siano sempre la soluzione migliore. Ma quando una famiglia ha una problematica, la prima cosa da fare è sostenerla. Per questo dicevo che l’affido è fondamentale, perché aiuta a costruire una rete, una comunità educante. L’intervento pubblico dovrebbe servire in primo luogo a questo, ad aiutare le famiglie. Le difficoltà non riguardano mai soltanto il minore, ma anche il suo contesto familiare e sociale».

Oggi però queste soluzioni sono discrezione della magistratura.

«È vero, stiamo lavorando su questo. Vedremo se ci sarà bisogno di un intervento legislativo o meno. Spesso succede che in nome della bigenitorialità il bambino viene sottratto alla madre perché lo chiede un padre violento, magari già condannato o con procedimenti penali in corso. Sono questioni delicate e difficili su cui intervenire perché i tribunali civili e penali troppo spesso non si parlano tra loro. C’è un caso che mi ha molto colpito: la madre si è decisa a portare il figlio in una casa famiglia per timore delle alternative. Quella madre non è più riuscita a vedere il figlio, che tra l’altro ha iniziato ad odiarla perché l’ha vissuto come un abbandono. Sono traumi incredibili».

Le risorse ci sono?

«Per i provvedimenti che stiamo attuando le risorse ci sono e sono quelle del ministero della famiglia. L’Osservatorio sarà messo in campo con le risorse del Fondo Famiglia e i due tipi di registri non prevedono grandi spese».

C’è una questione ampiamente sottovalutata nel dibattito pubblico ed è quella del crollo delle nascite e della crisi demografica. Constatiamo che tutti i rimedi messi in campo per contrastarla si sono rivelati poco impattanti. Ci sono elementi culturali oltre che economici che rendono così difficile incentivare le nascite?

«Le ragioni della denatalità sono molto complesse e incrociate tra loro. Faccio un esempio tratto da alcuni studi recenti: la Sardegna è la regione italiana con il tasso di natalità più basso. In Sardegna c’è un gap molto forte tra uomini e donne per quanto riguarda gli studi: le donne che si laureano sono il doppio degli uomini. È stata avanzata l’ipotesi che le donne che hanno studiato ambiscono a un rapporto di coppia paritario, cosa che non vale o vale meno per gli uomini. Si provoca in questo modo un disallineamento di coppia».

E quindi come si interviene?

«Il crollo numerico è dovuto al fatto che ci sono molte meno donne in età fertile. Nel ’95 avevamo lo stesso tasso di natalità di adesso, ma allora nascevano più di 500mila bambini, perché c’erano molte più donne in età fertile, mentre oggi siamo intorno ai 300mila. Dobbiamo essere consapevoli che nel breve periodo i numeri non potranno crescere e che, al massimo, potremo frenarne la discesa. L’Ungheria ha messo in campo forti misure e inizialmente sembrava aver raggiunto dei risultati sul tasso di natalità che però poi è sceso di nuovo. Questo perché con quelle misure si otteneva soltanto che coloro che avrebbero comunque fatto un figlio lo “anticipano” per godere di bonus e incentivi. Ma poi il tasso di fertilità si ristabilizza».

Anche in Francia si sono fatte politiche pro-natalità.

«Dagli anni ’80 la Francia ha attuato un grande sistema di accompagnamento alla maternità, sia dal punto di vista fiscale che socio-sanitario. Ora la velocità di caduta del tasso di fertilità è maggiore della nostra. Il demografo Volpi ha detto che le misure “classiche” di sostegno alla famiglia e alla natalità sono misure che, là dove sono state attuate, hanno dato tutto quello che potevano dare. Hanno espresso il loro potenziale negli anni ’80 e ’90, oggi è tutto diverso».

Quindi anche a destra bisogna convincersi che l’immigrazione è una necessità?

«Infatti il nostro governo ha subito riaperto i flussi, ma la lotta all’immigrazione irregolare è una cosa ben diversa. I flussi di ingresso non devono essere appaltati alla criminalità organizzata libica o tunisina. Anche il Piano Mattei, con la formazione in loco, va in questa direzione».

La premier Meloni ha individuato nella cultura woke uno dei suoi nemici principali. È una cultura che riflette la tentazione di annullare le differenze. Questa tendenza ha a che fare con la disaffezione alla procreazione?

«Io vengo dal femminismo della differenza, che intende valorizzare la differenza tra donne e uomini, non azzerarla. Delle differenze specifiche della donna fa ovviamente parte il materno. Il problema è non utilizzare la differenza per discriminare o assoggettare. La cultura woke, attraverso un trasferimento della filosofia francese nelle università americane, è arrivata alla negazione del corpo e quindi a una negazione della realtà, perché non è vero che noi “abbiamo” un corpo, come una “cosa” che ci portiamo appresso e di cui possiamo fare quello che vogliamo. Noi siamo un corpo. Tutto questo livellamento concorre a creare la cultura contemporanea, una cultura basata sul qui e ora e sull’esistenza intesa come qualcosa da consumare e non su cui investire. Questo impatta sicuramente anche sulla crisi della procreazione e della natalità, perché i figli sono relazione, mentre la cultura contemporanea va nella direzione di un individuo indipendente dalla relazione».

Le cronache sono riempite da continui casi di femminicidio. Questo governo ha la tendenza ad usare la leva penale che però non ha effetti né deterrenza, perché chi ammazza le donne non teme minimamente le conseguenze penali.

«Il nostro primo provvedimento non aggrava le pene ma mira piuttosto alla prevenzione. Abbiamo moltiplicato gli strumenti cautelari, gli ammonimenti, abbiamo agito sui reati spia e siamo intervenuti laddove si poteva cercare di interrompere il ciclo della violenza. Con il secondo provvedimento siamo stati fra i primi a tipizzare il reato di femminicidio, che è una svolta culturale. Nei tribunali si tende spesso a considerare la violenza sulle donne un conflitto familiare, ma la violenza contro le donne è specifica: il femminicidio significa che una donna viene uccisa in quanto donna. Noi abbiamo voluto spiegare questo. Sul piano etico è certo equivalente uccidere un uomo o una donna, ma c’è una tipicità del femminicidio. Il caso più evidente è quello di Saman Abbas: se il fratello si fosse comportato come lei, scegliendo di vivere all’occidentale, non sarebbe stato ucciso».

Continuare a lavorare sul versante delle pari opportunità aiuterebbe a far fronte anche ai problemi di violenza contro le donne. In che modo intendete intervenire?

«Abbiamo ad esempio reso strutturale il reddito di libertà, perché l’autonomia economica è fondamentale. Sul lavoro femminile abbiamo già ottenuto risultati incoraggianti. In tutte le nostre finanziarie precedenti erano incluse misure per detassare e incoraggiare il lavoro femminile. C’è poi il problema del gap salariale, che in Italia in gran parte è dovuto alla maternità e anche su questo abbiamo avuto un’attenzione costante. C’è ancora molto da fare, perché scontiamo la vecchia costruzione del lavoro sulla figura del capofamiglia maschio, di un corpo che non genera».

Questo governo ha azzerato l’educazione sessuale nella scuola media perché, come diceva, l’affettività deve essere appannaggio della famiglia. Non possiamo però non tener conto del fatto che oggi la famiglia vive una crisi profondissima, i matrimoni hanno un alto tasso di distruzione.

«Si parla molto dell’educazione sessuale come deterrente rispetto alla violenza contro le donne, ma abbiamo evidenze di paesi, come la Svezia, in cui l’educazione sessuale c’è da sempre e il tasso di violenza contro le donne è superiore al nostro. Io credo che l’educazione affettiva passi anzitutto attraverso la relazione. Se si impoverisce ancora di più la famiglia non si risolve il problema, è necessario tornare a dare la responsabilità ai genitori. Credo che mediamente un genitore preferisca avere un dialogo diretto con il figlio su questi temi piuttosto che demandarlo a persone terze».

Oggi però c’è un ostacolo a monte alla relazione, che è l’accesso che i bambini hanno alla pornografia.

«Noi abbiamo agito anche su questo, con il parental control previsto nel decreto Caivano. La filosofia è la stessa che guida tutti i nostri provvedimenti, quella per cui i genitori devono essere responsabilizzati».

Nella legge di bilancio si poteva fare di più per la famiglia?

«Credo che nel suo complesso sia una manovra molto responsabile. Noi abbiamo introdotto un Isee familiare, favorendo un maggiore accesso alle prestazioni per le famiglie, come ad esempio l’assegno unico e il bonus nuovi nati».

Sulla famiglia e sugli altri temi di sua competenza ritiene che il governo abbia una visione più liberale o più conservatrice?

«Direi una linea conservatrice e riformista. Noi vogliamo conservare quello che è degno di essere conservato, come appunto la famiglia, e riformare là dove nel nostro paese sono mancati impulsi riformisti. Non siamo reazionari o retrogradi, vogliamo portare il paese nel futuro, ma accompagnati dalle cose a cui siamo affezionati».

Lei è finita al centro delle polemiche per la frase sulle “gite” ad Auschwitz. Oggi riuserebbe quella parola?

«Io l’ho usata proprio in senso interrogativo. Stavo dicendo, “allora quelle ad Auschwitz cosa sono, gite?”. Tutto quello che abbiamo fatto per coltivare la memoria dell’Olocausto, i libri che abbiamo fatto leggere ai nostri ragazzi, a cosa sono serviti? Mi stavo chiedendo questo. Credevamo che producessero la consapevolezza che l’Olocausto c’è stato perché l’antisemitismo era un sentimento diffuso e c’era una zona grigia su cui il nazismo e il fascismo hanno agito. Ma oggi quell’antisemitismo lo rivediamo in altre forme».

Si è chiarita con la senatrice Segre?

«Ci siamo parlate al telefono. Ora vorrei essere audita in Commissione Segre».

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