L’ex vicepremier analizza chance e incognite del patto siglato a Sharm el-Sheik e ribadisce la necessità del sostegno a Kiev
Il disarmo di Hamas, il ruolo dell’Autorità nazionale palestinese, la composizione del comitato chiamato ad amministrare Gaza: le incognite non mancano, ma il Piano Trump resta l’unica strada per realizzare l’obiettivo dei due popoli e due Stati. Gianfranco Fini, ex ministro degli Esteri e presidente della Camera, non ha esitazioni a proposito della coesistenza di Israele e Palestina. E nemmeno sul conflitto tra Russia e Ucraina, quando prevede che «Putin non si fermerà» e che «l’Europa deve sostenere Kiev innanzitutto attraverso le forniture militari».
Presidente, la tenuta della tregua tra Israele e Hamas è la principale, ma non l’unica, incognita che grava sul Piano Trump. C’è da rassegnarsi al pessimismo?
«Non c’è dubbio che, in passato, l’ipotesi dei due popoli e due Stati sia stata molto più vicina rispetto a quanto non lo sia oggi. Ma se non fosse stato siglato un patto come quello di Sharm el-Sheikh, nulla autorizzerebbe un po’ di ottimismo circa quell’obiettivo. Né ci può essere altro obiettivo. Perché urlare “Palestina libera dal fiume al mare” significa invocare la cancellazione dello Stato di Israele, il che non è ammissibile. Né è pensabile che lo Stato palestinese sorga altrove».
Quindi non ci resta che affidarci a Trump?
«Trump è per natura imprevedibile. Non riconosce un valore decisivo alla coerenza e si muove con spregiudicatezza, partendo sempre dal presupposto che gli Stati Uniti siano il player più importante con cui tutti gli interlocutori devono scendere a patti. È un modo di procedere che sconcerta la diplomazia, ma non è detto che si riveli automaticamente fallimentare. Anche i più critici nei riguardi di Trump hanno dovuto ammettere che, se il massacro a Gaza si è fermato, lo si deve a come il presidente americano si è mosso in quello scacchiere.
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In una prima fase ha dato disco verde a Netanyahu per l’intervento militare a Gaza in risposta a un atto di guerra come quello subito da Israele il 7 ottobre 2023. Poi non ha obiettato quando Israele ha colpito Hezbollah in Libano, Houthi nello Yemen e regime in Iran. Quando, infine, nel tentativo di eliminare i vertici di Hamas, Israele ha colpito il Qatar, Paese amico dove gli Stati Uniti hanno una importante base militare, Trump ha detto basta.
Lo stesso metodo assertivo il presidente americano l’ha utilizzato con gli altri protagonisti dell’accordo di Sharm, cioè i Paesi musulmani. Trump ha avuto buon gioco nel far comprendere ai leader che il suo Piano era un’occasione storica per porre fine a una guerra cominciata nel 1947 e che i Paesi musulmani avranno un ruolo di rilievo nella ricostruzione di Gaza con la chance di forti ritorni economici».
Le incognite sul Piano, però, restano: quali sono le principali?
«I fatti recenti, con Hamas che uccide due militari e l’Idf che risponde bombardando, dimostrano che la tregua è fragile. Poi si parla di disarmo di Hamas: giusto, anzi sacrosanto. Ma le armi a chi vanno consegnate? In prospettiva alla polizia che dovrà garantire la sicurezza a Gaza, ma al momento non sembra esserci una risposta. E per armi si intendono solo quelle leggere o anche quelle pesanti? E che ne sarà dei tunnel che Hamas ha utilizzato per l’attività terroristica?
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Ancora, chi è oggi l’Autorità palestinese? Abu Mazen è un leader ormai anziano, quindi oggi manca una forte leadership palestinese a differenza dei tempi degli accordi di Oslo che furono siglati da Arafat, leader storico e riconosciuto della Palestina, e Rabin, altra personalità particolarmente autorevole. E poi bisogna tenere conto di un altro elemento».
Quale?
«Non va dimenticato l’enorme impatto psicologico che il 7 ottobre ha avuto su Israele. Per trovare un’altra circostanza in cui tanti ebrei sono stati uccisi in così poco tempo, bisogna risalire ai tempi in cui ad Auschwitz erano accesi i forni crematori. Non solo: il governo Netanyahu si regge anche sui voti di ministri come Ben-Gvir e Smotrich che non esito a definire estremisti e che, almeno a parole, hanno poco da invidiare ad Hamas: il primo ha detto che i palestinesi meritano solo pallottole in testa, l’altro si è candidato al ruolo di boia nella prospettiva dell’annientamento totale di Gaza. Sono posizioni incompatibili con qualsiasi democrazia, eppure sono rappresentate nella Knesset».
A proposito di Hamas, è ammissibile che ai terroristi vengano affidati compiti di polizia nella Striscia?
«Non c’è dubbio sul fatto che Hamas sia un’organizzazione terroristica. Dopo la vittoria alle elezioni, però, Hamas ha amministrato la cosa pubblica. Il che significa gestire scuole, ospedali, uffici, traffico: Hamas lo ha fatto godendo di un largo consenso di massa, salvo poi dimostrare – con l’atto di guerra del 7 ottobre, l’infamia della detenzione degli ostaggi e la barbarie del vilipendio dei cadaveri – di essere il più feroce avversario del diritto dei palestinesi di avere una patria. Hamas, però, c’è. La polizia amministrativa ci può stare, ma a patto che Hamas si dimostri coerente nei fatti con quel che dice e cioè di non voler continuare la guerra contro Israele».
E il ruolo di Tony Blair?
«Non credo che l’ipotesi di riconoscere a Blair un ruolo apicale nel board chiamato ad amministrare la Striscia prenderà corpo. È un’idea che a qualcuno sa di neocolonialismo».
Come se ne esce, quindi?
«Servono massima attenzione e vigilanza da parte degli Stati Uniti e dei Paesi musulmani. E, soprattutto, il massimo impegno nel comprendere la tragedia sia dei palestinesi, che nel 1947 furono cacciati dai territori in cui si erano insediati per fare spazio a Israele, sia di Israele stesso, che da duemila anni deve fare i conti con qualcuno intenzionato a cancellarlo dalla faccia della Terra».
L’Italia dovrà avere un ruolo nella ricostruzione di Gaza?
«L’Italia ha già un ruolo. Israele ha apprezzato che il nostro governo, a differenza di quello francese e di quello inglese, non abbia riconosciuto subito lo Stato palestinese. Il governo italiano ha detto una cosa più logica: la causa palestinese è giusta, i palestinesi hanno diritto a una loro patria, ma per il riconoscimento dello Stato palestinese devono sussistere le condizioni. Quindi l’Italia è stata giustamente prudente. E la prudenza è necessaria per invocare la massima attenzione e il massimo impegno indispensabili per la buona riuscita del Piano Trump.
Nello stesso tempo, l’Italia è il Paese che ha accolto il maggior numero di bambini palestinesi bisognosi di cure e che ha inviato tonnellate di aiuti a Gaza. E, quando Trump ha detto che non sarebbe mai nato alcuno Stato palestinese, è stata Giorgia Meloni a chiarire che lo Stato palestinese dovrà nascere perché averlo è diritto dei palestinesi. Detto ciò, l’Italia avrà un ruolo nella ricostruzione, anche perché tante aziende italiane hanno rapporti consolidati col mondo musulmano».
Resta irrisolta la questione russo-ucraina…
«Anche qui bisogna partire da alcuni punti fermi: la Russia ha invaso l’Ucraina con l’intento di “denazificarla”. Putin avrebbe voluto arrestare Zelensky e sostituirlo con un fantoccio come Lukashenko. Le sanzioni imposte dall’Europa alla Russia hanno fiaccato ma non messo in ginocchio Mosca che continua a fare affari con India e Cina. Detto ciò, Putin non si fermerà, l’Ucraina non vincerà la guerra domani, quindi il popolo di Kiev va sostenuto innanzitutto con le forniture militari».
Anche qui l’Europa sembra aver appaltato a Trump la risoluzione della questione russo-ucraina: è la certificazione della propria impotenza?
«Se non imbocca la strada giusta, l’Unione europea rischia di dissolversi. Non essendo una federazione di Stati sul modello degli Stati Uniti, non ha una politica estera né di difesa comune, ma soltanto commerciale. E teme che Trump finisca per disinteressarsi dell’Ucraina. Quindi l’Unione europea può fare soltanto due cose: da una parte continuare a sostenere il popolo ucraino e mettere in piedi un meccanismo di coordinamento delle forze armate per difendere la propria sicurezza e, dall’altra parte, agire su Trump affinché comprenda che certe fughe in avanti, come il vertice con Putin in Alaska, non portano da nessuna parte».
Quindi non si aspetta nulla di buono dal prossimo vertice Trum-Putin in Ungheria, a casa di Orban?
«Non bisogna smarrire la fiducia. L’Ungheria fa parte dell’Ue e della Nato e ha conosciuto prima di altri il “taglione sovietico”. Nello stesso tempo Orban è il leader europeo più filoputiniano. Sarà lui a far dialogare Putin, Trump e il resto dell’Occidente? Ne sarei felice, ma ho qualche dubbio».