Boccia, De Crescenzo, Albanese, Bandecchi, Vannacci e Sangiuliano. Gli alfieri del “partito dei 15 minuti” con un obiettivo: la notorietà
Sul finire degli anni ’60 Andy Warhol pronosticò che in futuro tutti avrebbero avuto quindici minuti di celebrità. Non sapeva che in Italia, dopo quei quindici minuti, ti chiama un partito. E in effetti “sentire la chiamata” era un tempo l’aspirazione di chi voleva prendere i voti; nessuno avrebbe immaginato che si sarebbe trasformata nel chiederli agli altri i voti.
Gli angeli dei talk-show sproloquiano, i fedeli del rancore si vendicano sui social. Da sinistra a destra passando per il centro, nessuno dei predicatori un tanto al chilo sfugge al richiamo dell’urna.
Il mondo del generale Roberto Vannacci
La parabola del generale Roberto Vannacci, per restare in tema mistico-elettorale, racconta bene questa nuova stagione dello spirito pubblico. La magra figura rimediata alle regionali in Toscana non sembra averne ridotto le ambizioni. D’altronde chi più di lui, già a capo della Brigata Folgore, è abituato al salto nel vuoto?
Un’aspirazione maturata dopo il successo del libro “Il mondo al contrario”. Tra una correzione e l’altra lo immaginiamo mentre ispeziona il condominio per difenderlo dai pericoli del multiculturalismo e dei motorini lasciati nell’atrio. L’influencer della virilità perduta sogna reparti speciali di decoro, ronde letterarie pronte a liberare i cortili dall’invasione dei pensieri complessi.
Il re dei talk Aboubakar Soumahoro
Tra i perdenti di successo in cerca di collocazione c’è Aboubakar Soumahoro, pellegrino del talk e fondatore di Italia Plurale, che ha sperimentato il proprio laboratorio civico a Monfalcone: risultato modesto, zero eletti, ma notevole produzione di dirette. I leghisti l’hanno ribattezzato “partito islamico“, lui sorride e posta. Ha iniziato con gli stivali nel fango, è finito con le scarpe nel talk: il suo è un ministero itinerante, ogni settimana un palco, una causa e un nuovo modo per dire che quella vicenda familiare per cui lasciò Avs non è colpa sua. Non ha più un partito, ma un feed. E quello funziona meglio.
La corte di Francesca Albanese
Francesca Albanese, relatrice Onu per i diritti umani nei Territori palestinesi, è la più corteggiata dai partiti che non sanno più cosa dire ma vogliono dirlo con autorità. Tra un dibattito e l’altro è diventata un partito a sé, con un programma ridotto a un solo punto: aver ragione in diretta. Il M5s ci ha provato, poi Avs, ma lei declina gli inviti – almeno finché resta al centro dell’assedio mediatico. Bacchetta sindaci che osano ricordare il pogrom del 7 ottobre, si alza e fugge dagli studi appena sente nominare Liliana Segre. Non è candidata, ma rieletta ogni sera dal palinsesto.
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L’ex ministro Sangiuliano e Maria Rosaria Boccia
Neanche il tempo che si rimarginassero le ferite lasciate sul cranio dell’ex ministro Sangiuliano, e Maria Rosaria Boccia rispunta nelle cronache come candidata. L’imprenditrice, protagonista del caso che travolse il ministro, dice sì alla corsa in Campania con il carrozzone di Stefano Bandecchi: annuncio in pizzeria, flash, e la promessa di “non essere capolista” come voto di umiltà. Sangiuliano, che giurava di volersi tenere lontano dalla politica per un po’, oggi è dato tra i papabili capilista di FdI nella stessa regione.
Il format Stefano Bandecchi
Poi lui, Bandecchi, sindaco di Terni. Non un politico, ma un format: una via di mezzo tra conferenza stampa e zuffa di condominio. A Terni ha insultato e minacciato un cronista, risse con i contestatori, e persino sputato acqua in faccia a un cittadino. È l’apostolo del “perché no?”, il parroco della rissa gentile. Candida chi fa notizia, discute con chiunque, e trasforma ogni piazza in diretta. Un giorno il microfono, l’altro la mano lesta: la parabola perfetta dell’Italia che scambia il volume per la visione.
La tiktoker del balcone, Rita De Crescenzo
E come se non bastasse, sullo sfondo spunta Rita De Crescenzo, la tiktoker del balcone che portò i “barbari” a sciare a Roccaraso. Una gita diventata leggenda: pullman, musica, selfie, invasione delle piste. Poi irruzioni in Regione, dirette in ospedale, gite a Capri: ogni azione un comizio, ogni video un atto di fede. Ora si parla di una sua candidatura alle regionali – e probabilmente lei lo scoprirà da una notifica.
Tutti vivono in una nuvola, la stessa che Warhol aveva intuito ma non previsto: una dimensione sospesa tra visibilità e vocazione, dove la notorietà non è più il mezzo ma il fine. La politica non li arruola, li assorbe: li usa come riflettori portatili per scaldare un elettorato disilluso. Il dramma è che la nuvola non produce pioggia: solo rumore, solo luce.
Ogni sconfitta è un trailer
In fondo, questi nuovi santi del consenso effimero hanno capito tutto: non serve vincere, basta esistere in pubblico. Ogni sconfitta è un trailer, ogni diretta una resurrezione. Hanno trasformato il Paese in una rampa di lancio permanente, dove l’importante non è atterrare ma rimanere sospesi. E mentre loro ascendono, noi restiamo quaggiù, a misurare il tempo che passa tra un post e un voto, tra un like e un’idea. Forse Warhol aveva torto: in Italia, la celebrità non dura quindici minuti. Dura una campagna elettorale intera – poi si ricomincia da capo.