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Il rito vuoto dell’Ue che nasconde il flop della politica

Le sanzioni europee contro Israele annunciate ieri saranno salutate da molti con giubilo e soddisfazione, ma rischiano di rivelarsi poco efficaci, o non determinanti, e perfino, per certi aspetti, controproducenti. Quale illusorio convincimento muova queste “buone intenzioni” – e quali vie dell’inferno esse potrebbero lastricare – non è difficile comprenderlo. Le sanzioni, infatti, hanno una capacità non sempre risolutiva di influire sulla politica di un governo che può contare su alleanze e circuiti economici alternativi.

Se la Russia, in effetti, è stata indebolita di certo per l’esclusione dal sistema Swift, il crollo iniziale del rublo e i tetti al prezzo del petrolio, tutti provvedimenti doverosi e necessari, è pur vero che Putin ha compensato in parte il danno trovando sbocchi verso la Cina e l’India, ed è riuscita a trasformare l’embargo in uno strumento propagandistico: prova dell’odio occidentale, nonché giustificazione dell’autoritarismo interno. Nel caso di Israele, però, che a differenza della Russia, risponde dal 7 ottobre a una guerra di aggressione iniziata da Hamas e scientemente prolungata da Hamas, che ancora oggi si ostina a non liberare gli ostaggi, il sostegno economico-militare statunitense, che vale oltre i tre miliardi di dollari all’anno, garantito da un Memorandum d’intesa firmato dall’allora presidente Obama e valido fino al 2029, è ancor più determinante.

Sono quei fondi, e l’ombrello strategico che li accompagna, oltre alla percezione di una minaccia esistenziale rappresentata dall’islamismo jihadista palestinese, a determinare la tenuta di Israele, nonostante l’isolamento e la condanna internazionale pressoché unanime. È difficile immaginare che la sospensione di tariffe agevolate o di programmi europei possa smuovere questa architettura. La politica israeliana non si decide a Bruxelles, con qualche punto di dazio. Netanyahu sa di avere dalla sua parte l’alleato decisivo e che la sua sopravvivenza politica dipende molto più dall’opinione pubblica interna e dalle fragili coalizioni parlamentari che non dai voti del Parlamento europeo. Le sanzioni targate UE finiscono così per avere un effetto secondario, quasi riflesso, poiché il governo israeliano continuerà a perseguire indisturbato la sua strategia militare.

La verità è che le sanzioni, nel caso specifico, non rappresentano né un atto di coraggio né un passo verso la pace, come vorrebbero sembrare, ma appaiono più come un cedimento alla sirena del populismo, nella sua versione moraleggiante. Se la tragedia di Gaza suscita giustamente indignazione diffusa, governi e istituzioni avvertono la necessità di dare un segnale, di rispondere a una domanda che si manifesta sempre più in cortei, appelli, manifestazioni, proteste. Le sanzioni, allora, servono di più a questo: a placare le coscienze, a dare l’im – pressione che l’Europa non stia a guardare.

Sono un gesto rivolto all’interno, più che uno strumento di politica estera, ma sono un gesto simbolico, non dissimile dal riconoscimento dello Stato palestinese rincorso da vari governi come un atto “storico”. Non c’è dubbio che quest’ultimo esprima la volontà di ribadire il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione, né che abbia un peso nel dibattito internazionale. Ma sul piano pratico resta poco più che un’astrazione. Uno Stato non esiste senza confini garantiti, senza istituzioni operative, né un minimo di sicurezza. Riconoscerlo in questa fase significa creare un simulacro, e – come è già evidente – fornire alla destra messianica israeliana un nuovo pretesto per accelerare la colonizzazione della Cisgiordania e l’occupazione della Striscia di Gaza.

Il rischio, insomma, è che i gesti simbolici contro Israele producano effetti opposti a quelli desiderati, poiché finiscono per rafforzare la narrativa dell’assedio e spingere il governo israeliano ad allontanarsi dall’Europa e a serrarsi attorno a posizioni sempre più radicali. Certo, i gesti simbolici hanno anche un loro perché, sarebbe ingiusto negarlo: mantengono viva l’attenzione, segnano una distanza etica, e soprattutto ci fanno sentire in pace con la nostra coscienza.

Ma la politica non può ridursi a questo, altrimenti si trasforma in una sequenza di riti consolatori e – cosa ben più pericolosa – nello specchio delle piazze. Le proclamazioni di principio non incidono sulla realtà, sono il sintomo piuttosto di una “impotenza compatibile”, per così dire, in quanto non richiedono né coraggio né visione. Per questo si può prevedere che le sanzioni europee non sposteranno il conflitto di un millimetro. La vera questione, allora, riguarda ancora una volta l’identità stessa dell’Unione Europea.

Vuole essere un attore politico globale, capace di incidere sui grandi conflitti, o preferisce restare una potenza normativa che regola dettagli e si rifugia nei simboli quando la storia bussa alla porta? Non è una domanda astratta: da come si risponde dipende la credibilità dell’Europa, la sua capacità di pesare non solo nei mercati ma nella politica internazionale. Forse, più che proclamare nuove liste di sanzioni, l’Europa dovrebbe interrogarsi su come costruire una vera politica mediorientale. Ad esempio come favorire accordi regionali tra Israele e paesi arabi moderati, che siano ancorati a una roadmap credibile per un futuro stato palestinese, così da non ridurli a semplici intese bilaterali economico-militari.

O ancora: come promuovere una forza di osservatori europei in Cisgiordania e a Gaza (sul modello della missione EUBAM Rafah del 2005), con mandato chiaro e strumenti di verifica; come aprire un vero canale con l’Autorità Palestinese che rafforzi istituzioni e capacità amministrative, per non lasciare che la sua debolezza diventi un alibi eterno per il radicalismo islamista o per la destra israeliana. Oppure, come rilanciare il “Quartetto per il Medio Oriente” in una nuova forma, dandogli maggiore concretezza e favorendo l’ingresso di un attore arabo moderato; come puntare su iniziative culturali ed educative, piuttosto che sui boicottaggi: borse di studio, programmi universitari, progetti di cooperazione civile che coinvolgano israeliani e palestinesi insieme, per non ridurre la diplomazia alla sola dimensione militare o commerciale. E così via elencando tutto ciò che oggi sembra mancare alla politica europea.

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