Home / Italia / Armani, i suoi capi in 200 film. Così ha “vestito” la vita

Armani, i suoi capi in 200 film. Così ha “vestito” la vita

di

C’è una scena divenuta iconica del film «American Gigolo», in cui Richard Gere, a torso nudo e in pantaloni, apre l’armadio, prende diverse giacche, camicie e cravatte, le allinea stendendole sul letto e ne sceglie i pezzi in base all’accostamento dei colori e dei tessuti, mentre canticchia una canzone degli Smokey Robinson & The Miracles. È l’anno 1980 e questa scena segna l’inizio di una lunga e proficua collaborazione tra Giorgio Armani e Hollywood.

In quell’armadio, infatti, c’era molto più che un guardaroba: in quelle giacche leggere, destrutturate, morbide, nasceva un nuovo maschile cinematografico, e la prima impronta, che resterà indelebile, di un’Italia pronta a colonizzare l’immaginario americano: un’Italia diversa, moderna, fatta di sobrietà e misura, lontanissima dal folklore postbellico di cui ancora si nutrivano gli States.

Un’Italia più protestante che cattolica. E Hollywood, che prima di Armani era stata vestita dal barocco francese o dall’opulenza americana, e che aveva fatto della virilità muscolare un culto – si pensi agli Stallone, agli Schwarzenegger – scopre così con quel film di Paul Schrader la potenza della sottrazione. Armani introduce infatti, nel suo ruolo di designer-costumista, un maschile alternativo, qualcosa di insinuante, di fluido (molto prima, e molto più sobriamente, del trionfo del fluid gender), smontando da subito, e letteralmente, la figura machista dominante nell’immaginario collettivo.

Ma non solo. Anche quando veste i personaggi che incarnano il potere nei film di Martin Scorsese – potere criminale, come in «Goodfellas» (1990), con Ray Liotta, Robert De Niro e Joe Pesci, o potere finanziario, come in «The Wolf of Wall Street» (2013), dove gli abiti di Leonardo DiCaprio sono il simbolo visivo di una vertigine capitalistica predatoria che si consuma nella sua stessa ostentazione – Armani costruisce degli archetipi, rende visibile l’ambiguità morale, lo splendore che nasconde la violenza, o l’uomo che si cela dietro la maschera.

Succede lo stesso con i personaggi che al potere si oppongono – uomini retti, come l’Eliot Ness di Kevin Costner in «Gli Intoccabili» di Brian De Palma(1987), con il completo a tre pezzi, emblema di integrità e fermezza morale, o supereroi come il Batman di Christian Bale, che in «Il cavaliere Oscuro» di Christopher Nolan (2008) indossa doppiopetti gessati su misura e cravatte regimental – o con quelli che invece non scelgono né il potere né la rettitudine, ma la truffa, come George Clooney e Brad Pitt in «Ocean’s Thirteen» (2007), dove lo smoking è la divisa che rende l’inganno irresistibile.

Se lo stile è l’uomo, come è stato detto, niente meglio del cinema firmato Armani lo conferma, in quella sua cifra inimitabile che fonde rigore e libertà. Con quella cifra Armani ha riscritto, naturalmente, anche il femminile dello star-system: basti pensare a Liv Tyler, in «Io ballo da sola» di Bernardo Bertolucci (1996), con il suo look ninfale che diventa anche struggente memoria generazionale, a Jodie Foster in tailleur satinato sfoggiato nella pellicola sci-fi «Elysium» (2013), a Jessica Chastain, protagonista di «1981: Indagine a New York» (2014), con i suoi cappotti strutturati, tubini di seta, spalle abbondanti, e punto vita segnato, un guardaroba che racconta la tensione tra glamour e ferocia.

Ma è soprattutto sul red carpet – da Cannes a Los Angeles – che Armani ha vestito le sue dive (gli Oscar del 1990 furono ribattezzati dalla stampa «Armani Awards»): Diane Keaton, Sophia Loren, Claudia Cardinale, Julia Roberts, Cate Blanchett, Glenn Close, Lady Gaga, Michelle Pfeiffer, e molte altre. Armani ha operato così nel cinema americano una rivoluzione silenziosa e pervasiva, cucendogli addosso un’idea di modernità che non è esagerato definire epocale. Le sue collaborazioni con i costumisti hollywoodiani hanno trasformato quel cinema in terreno di sperimentazione per uno stile minimal made in Italy che ha fatto dell’eleganza una grammatica visiva, al pari della luce di Gordon Willis o della musica di Ennio Morricone.

Del resto l’incontro con la settima arte era inevitabile. Non è un caso che Armani amasse ripetere: «La vita è un film e i miei capi sono i costumi». Lo credeva davvero. E lo ha dimostrato firmando i guardaroba di oltre duecento film: un’opera parallela che ha inciso nell’immaginario collettivo più di molte filmografie complete. Si può dire, infatti, che «re Giorgio» sia stato a suo modo sempre un narratore, poiché la sua moda non si è limitata a vestire un lifestyle, ma ha raccontato una visione del mondo.

Dall’America patinata di Gere al gangsterismo di Scorsese, dall’epica noir di De Palma ai supereroi di Nolan, fino alle dive contemporanee, con Armani l’Italia ha vestito Hollywood, e Hollywood ha trovato nei suoi abiti il proprio specchio. In questo senso la sua scomparsa è stata quella dell’ultimo grande umanista della moda: capace di vedere nel tessuto non solo il colore e il taglio, ma la storia che esso avrebbe evocato sul corpo di chi lo indossava.

Tag:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *