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Chiocci e Meloni, se il Palazzo viene prima del Tg

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Dicono che il direttore del Tg1 Gian Marco Chiocci sia stato colpito dal fuoco amico, che cioè la notizia della sua futura nomina a portavoce della premier sia stata consegnata al Foglio da una manina di Palazzo Chigi interessata a concorrere allo stesso incarico. Una volta uscita la notizia, lui ha confermato all’AdKronos di essere stato «sondato informalmente» da Giorgia Meloni per una eventuale, futura nomina e di non aver preso alcuna decisione.

Circostanza ovvia, se si trattava per l’appunto di un impegno eventuale e futuro, lasciando sospettare in tal modo che la decisione finale non sarebbe spettata a lui. L’indiscrezione e la conferma dell’interessato avrebbero ottenuto l’effetto di irritare la premier e di mettere in discussione la candidatura. Tanto da indurre Chiocci a chiamare l’ad Giampaolo Rossi per rassicurarlo che per ora resterà alla guida del Tg1.

Fin qui i fatti, che ricevono sui quotidiani commenti di diversa natura. Come quello di Carmelo Caruso, sullo stesso Foglio che ha per primo pubblicato l’indiscrezione, e che pronostica che alla fine «vincerà Chiocci», poiché «se lo merita» e sarà portavoce di Giorgia Meloni e forse anche candidato con Fratelli d’Italia alle prossime elezioni. «Di fronte a una chiamata così importante – avrebbe risposto ai suoi il direttore del Tg1, secondo la ricostruzione del Foglio – è difficile resistere». Ma è davvero così?

L’ambizione professionale del direttore del principale organo di informazione pubblica di una democrazia liberale è quello di diventare portavoce del capo del governo? Sia detto con rispetto per il lavoro di chi s’incarica di gestire la comunicazione del Palazzo, compito non facile e certamente utile alla democrazia, ma la carriera di un giornalista, oggi più difficile di ieri, ha una qualità soggettiva irrinunciabile per chi la intraprende: l’indipendenza. Una volta, nell’ormai antica società industriale in cui il giornalismo divenne un fenomeno di massa, questa qualità si definiva per opposizione a un potere monolitico con la metafora del cane da guardia.

Nella società globale in cui il potere è diffuso, e il giornalismo non abbaia più in una sola direzione, tuttavia l’indipendenza resta una motivazione soggettiva che si tramuta in un valore oggettivo per la democrazia. Perché esprime la capacità dell’informazione di resistere alle pressioni di poteri sempre più pervasivi, di promuovere un dibattito aperto e problematico, di formare di un’opinione pubblica matura.         

Qui non è in discussione il pensiero di Chiocci, a cui auguriamo ogni approdo che desideri, ma il fatto che, tanto dalla reazione del protagonista, tanto dai commenti che l’informazione ne ricava, la poltrona di portavoce della premier si colloca su un gradino più alto di quella di direttore dell’organo di informazione pubblica più importante del Paese, chiamato tra le sue funzioni a controllare la stessa premier. Non conta che quella poltrona più alta sia nella realtà, ma che tale appaia nella considerazione che i giornalisti le attribuiscono.

Questo è un punto centrale per il servizio pubblico e per la democrazia. Perché in mille modi si può riformare la Rai nel tentativo di sottrarla al controllo della politica, e da mezzo secolo almeno se ne discute, ma nessun meccanismo formale potrà proteggere l’informazione quanto l’idea che il lavoro dei giornalisti, pur umile e faticoso, sia unico e preferibile a qualunque altro, perché indipendente.

Un tempo, nella nostra giovinezza professionale, ci saremmo chiesti che cosa avrebbero deciso, di fronte a una simile offerta, due come Enzo Biagi e Indro Montanelli. E la risposta che ci saremmo dati avrebbe rafforzato l’aspirazione ad imitarli. Possiamo considerare pari a questa memoria gli esempi che la cronaca ci riporta?       

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