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Netanyahu, Trump e Putin: il Triello d’azzardo

Il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu

Oggi si svolge un triello fra Netanyahu, Putin e Trump. Il primo, detto a Tel-Aviv “il mago” per la quasi infinita capacità di tirare combinazioni politiche dalla sua kippah, è considerato dai suo fans un “dono dato da Dio”, un genio politico ed un nuovo re d’Israele. Vuole trasformare il cocente e sanguinoso scacco del 7 ottobre 2023, inflittogli da Hamas, nell’occasione unica per imporre una soluzione finale al problema palestinese, cancellare Hamas ed al-Fatah colonizzando tutti i territori palestinesi, stroncare la concorrenza egemonica dell’Iran dei pasdaran, forzare una sostanziale supremazia strategica sul Vicino Oriente e sul Golfo Persico, salvando la sua poltrona e la sua libertà dagli incombenti processi nazionali ed internazionali.

Sarebbe inesatto pensare che Bibi sia solo mosso da interessi egoistici, perché così si costruisce un perfetto capro espiatorio su cui caricare tutte le colpe. L’ego di Netanyahu non teme confronti coi suoi coprotagonisti, ma Benjamin è l’autoritratto di un paese che, dal momento in cui ha scelto nel 1956 di aggredire l’Egitto (a sostegno di Francia e Gran Bretagna) e nel 1967, dopo una dubbia guerra preventiva, di annettere unilateralmente territori che non gli erano stati assegnati e riconosciuti, è entrato in una spirale di crescente militarismo, nazionalismo, autoritarismo ed eccezionalismo che l’hanno portato dove è adesso. Nella ricerca del “grande slam”, in due anni Bibi ed i suoi hanno sperperato un capitale politico di ottanta anni di pietà, rispetto, affetto, pentimento, sensi di colpa e valori universali per un risultato operativo assai incerto, sicuramente costoso per l’economia nazionale e foriero di laceranti divisioni interne. Hamas, per ammissione dei politici israeliani, non è stata sradicata; Hezbollah non ha ancora disarmato e si sta ricostituendo (anche se con difficoltà); l’Iran non è stato piegato nemmeno dalla massima pressione dei bombardamenti israeloamericani, quindi le trattative continuano, e gli Houthi in Yemen hanno ottenuto un cessate il fuoco bilaterale con gli USA.

Putin ha intrapreso per disperazione la strada della guerra per la protezione dei suoi avamposti e spalti strategici in Ucraina e Georgia, seguendo la “retta via” del suo modello autoritario, modernizzatore, occidentalista, restauratore ed espansionista, Pietro il Grande. Ha impiegato vent’anni per costruire una macchina da guerra che ha funzionato nelle due brutali campagne cecene, in quella di contrattacco telefonato in Georgia e nella guerra ibrida in Crimea e Donbass. Nel 2022 è crollata l’illusione del crollo di un paese ucraino, sprezzantemente considerato finto e fragile, iniziando il calvario di una dura guerra d’attrito. Le pretese russe per una pace o una sospensione bellica mostrano l’autopercezione di Mosca della distanza tra una vittoria convincente ed una risicata ai punti. Più di tre anni di guerra per ottenere qualche obbiettivo essenziale (il rinvio di un decennio per le aspirazioni euroatlantiche di Kiev) e qualche guadagno territoriale pagato a carissimo prezzo umano e finanziario, incluso il futuro ipotecato del paese e della sua tenuta in Estremo Oriente; per non parlare della rottura di rapporti vantaggiosi con l’Europa e delle sanzioni.

Trump, che vorrebbe tanto essere un “asso vincente” nel fare paci vantaggiose per l’America rispetto a guerre per lui inutili, è al momento avvolto in una rete frustrante di rinvii, ammicchi, gnorri e bidoni da parte di due politici con cui ha rapporti stretti ed ai quali continua a lasciare porte molto aperte. Quello che, come Berlusconi prima di lui, non ha capito è che il piglio personale ed aziendale della sua politica estera permette di connettersi rapidamente con i suoi pari, ma senza quel lavoro di squadra del dipartimento di Stato che permette valorizzazione e continuità politico-diplomatica nel tempo. Alla fine resta come Serpico, incastrato in una porta, da solo ed esposto al primo colpo in faccia.

La storia di Bibi che cerca di mediare tra Putin e Trump, è un pio ballon d’essai, per due motivi. Primo: i piccoli non mediano fra i grandi (altrimenti l’Italia media potenza sarebbe da Guinness). Secondo: lui sta piuttosto intessendo un rapporto di controassicurazione con la Russia (già forte per la consistente comunità d’immigrati sovietici e russi in Israele) per un possibile salto della quaglia, qualora la relazione con Washington degradasse pesantemente. Prima Tel Aviv era in un’orbita francese (è Parigi che ha dato i caccia Mirage e la bomba atomica), poi si è passati a quella statunitense: non c’è due senza tre. Tanto più che, mentre la stampa sottolinea la tempestosa relazione con Trump, dimentica che la faglia sotterranea nei rapporti bilaterali data almeno dai tempi di George Walker Bush (2004), quando scoppiò un caso di spionaggio israeliano ai danni del Pentagono per informazioni segrete su Teheran. Le frizioni hanno continuato nel tempo a vari livelli, ma il loro effetto cumulativo si è visto adesso con Gaza.

Trump ha forti legami con Putin e tiene a chiudere il problema ucraino e neutralizzare l’influenza cinese su Mosca; di contro il presidente russo gioca d’azzardo, ma ha bisogno anche lui di fermare la guerra. Washington ha forti legami con Israele, ma la campagna di sterminio non ne compromette solo l’immagine pubblica, peggio, può far sorgere a Trump ed in settori del Congresso la semplice domanda a cosa serva un simile alleato oggi, ancora.

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