Più la tragedia di Gaza si protrae con il suo carico di lutti, sofferenze, devastazioni, più si espande la tendenza a definire tutto quel che accade come “genocidio”, parola pesante che evoca drammatiche pagine della nostra storia. E intorno a quella parola si è sviluppato un dibattito sulla sua congruità e sulle conseguenze del suo utilizzo.
E quando una personalità come David Grossman – uomo di sinistra, impegnato da sempre per la convivenza tra ebrei e palestinesi, colpito nei suoi affetti più intimi dalla perdita di un figlio in guerra – evoca con sofferenza il rischio che la politica di Netanyahu precipiti Israele in una spirale genocidiaria, allora è necessario con quella parola fare i conti.
Dico subito che la sofferenza di Grossman è vissuta con analoga intensità da una parte larga della società israeliana e del mondo ebraico di ogni Paese che non si riconosce nella politica di Netanyahu e la contesta. Ed è una sofferenza vissuta anche da chi – non ebreo, né cittadino israeliano – ha amato e ama Israele, il socialismo dei kibbutz, la tenacia nell’estrarre l’acqua dal deserto, la forza di far vivere la democrazia in una regione che non la riconosce, la determinazione a credere nella vita dopo l’ecatombe dell’Olocausto.
La sofferenza di chi ha visto cadere le speranze di pace e di convivenza degli accordi di Oslo. La sofferenza di chi formatosi sui libri di Amos Oz, Avraham Yeshoua, David Grossman, Evol Esko, Edgar Keret, Aharon Appelfeld, sui film di Amos Gitai e sui concerti di Daniel Baremboin, vede oggi traditi i loro valori dalla scellerata politica della destra israeliana.
La enorme tragedia che divora Gaza va denunciata senza reticenze e fermata in ogni modo, adottando tutto ciò che può essere utile per fermare Netanyahu, anche misure radicali: dal riconoscimento dello Stato di Palestina – senza che appaia una concessione ad Hamas – alla sospensione di accordi di cooperazione, a misure sanzionatorie verso i responsabili di quella politica. E tuttavia non credo che si possa fermare quella tragedia usando la parola “genocidio”, oggi indirizzata non solo contro Netanyahu, ma contro tutti gli israeliani e tutti gli ebrei.
A Milano l’aggressione ad un ebreo francese e a suo figlio è avvenuta al grido di “ebrei assassini”. In alcuni negozi sempre di Milano è comparso il cartello “non si accettano clienti israeliani”. A Napoli sono stati cacciati da un ristorante due clienti perché ebrei israeliani (peraltro esponenti di uno dei partiti di opposizione al governo Netanyahu). In Spagna sono stati fatti scendere da un aereo studenti perché israeliani. E ogni giorno episodi di questo genere si ripetono e si diffondono.
So bene che sono comportamenti suscitati da un sentimento sincero e nobile di indignazione per quel che accade a Gaza. Ma l’indignazione non può giustificare l’errore. Fin dall’inizio di quella tragedia abbiamo detto che è un errore omologare ogni cittadino israeliano al governo Netanyahu. Ed è ancor di più un’aberrazione considerare complice di Netanyahu ogni ebreo, ovunque viva nel mondo.
Ebbene, è proprio l’uso della parola genocidio che annulla quella distinzione e carica le responsabilità di Netanyahu su un intero popolo e un’intera nazione. E una volta usata, quella parola rimane come un marchio indelebile. Come ha scritto proprio Grossman, «una parola valanga, che una volta pronunciata non fa che crescere, generando ancora più distruzione e più sofferenza». E ha ragione Liliana Segre quando sottolinea «il compiacimento e l’isterica insistenza» con cui quella parola «carica di odio» viene usata «per vendetta».
Ricordiamoci come l’accusa di “deicidio” è stata utilizzata per secoli contro gli ebrei, provocando sofferenze, segregazioni e discriminazioni di ogni tipo. Non solo, ma con l’accusa di genocidio oggi si assolve Hamas da ogni responsabilità trasformando la sua azione terroristica in “resistenza”.
Quando invece le colpe di Hamas sono enormi: il massacro del 7 ottobre, gli ostaggi sottoposti ad una prigionia terribile e disumana, anni di azione terroristica contro Israele, la trasformazione di Gaza in una gigantesca base militare utilizzando le enormi risorse erogate da paesi arabi, le sofferenze indicibili imposte alla popolazione gazawi, il sequestro violento degli aiuti umanitari, il perseguimento della distruzione di Israele negandogli il diritto a esistere.
Tutto ciò rischia di essere azzerato dall’accusa di “genocidio” a Israele, non a caso parola d’ordine dei movimenti pro-Pal. Non si tratta di ridurre le responsabilità del governo israeliano, dell’ebraismo messianico, di ministri razzisti come Ben Gvir e Smotrich, dei coloni estremisti. Responsabilità che vanno denunciate e combattute. E non mancano parole pesanti per dirlo e per farlo.
È un crimine bombardare un edificio per colpire un dirigente di Hamas sapendo che moriranno innocenti residenti lì. È un delitto usare l’affamamento di una intera popolazione con una inaccettabile punizione collettiva. È una gravissima forma di pulizia etnica progettare la deportazione di centinaia di migliaia di persone. Sono gravissime violazioni di diritti umani e di regole internazionali e come tali ne vanno perseguiti i responsabili. Nessuna reticenza ci può essere su questo.
Ma nessuno di quei crimini configura un genocidio. I nazisti rastrellavano gli ebrei, casa per casa, avendo i nomi di ogni famiglia, per eliminare ogni presenza ebraica. Poi li stipavano in carri bestiame piombati e li deportavano ad Auschwitz dove venivano uccisi nelle camere a gas dando corso alla “soluzione finale della questione ebraica”.
In Ruanda un milione di Tutsi sono stati sterminati, villaggio per villaggio, dalle milizie Hutu. A Srebrenica 8000 uomini bosniaci sono stati fucilati per 48 ore ininterrotte, mentre le loro mogli e figlie venivano violentate una a una. Quelli erano genocidi. Ma nessuna di quelle efferate violenze sono state perpetrate a Gaza.
È questa la ragione per cui a mio avviso ci si debba astenere dall’usare quella parola, mentre è ancor più urgente concentrarsi sugli obiettivi indispensabili per fermare quella tragedia: liberazione degli ostaggi, cessate il fuoco, inoltro senza ostacoli degli aiuti umanitari. E ripresa della costruzione di un percorso di pace fondato sul principio “due popoli, due Stati”. Soluzione certo oggi più difficile, ma in ogni caso l’unica in grado di far uscire il Medio Oriente da una guerra infinita.
Soluzione rilanciata in questi giorni da una iniziativa promossa da Francia e Lega Araba con una dichiarazione in cui si condanna il massacro del 7 ottobre e si intima ad Hamas di liberare gli ostaggi e di deporre le armi, si chiede a Israele di fermare le operazioni militari e non frapporre ostacoli all’inoltro degli aiuti per i gazawi, si propone una autorità indipendente per Gaza, garantita da una presenza internazionale.
Dichiarazione sottoscritta anche da Arabia Saudita, Egitto, Giordania e Qatar, Paesi che possono esercitare un ruolo cruciale offrendo alle parti in conflitto una doppia garanzia: ai palestinesi che avranno finalmente un loro Stato e a Israele che la sua esistenza e la sua sicurezza saranno riconosciute e non più messe in discussione. E quegli stessi Paesi arabi possono, più di altri, far comprendere a Trump che anche gli Stati Uniti hanno interesse a un Medio Oriente stabile e sicuro, mentre un acritico appoggio a Netanyahu allontana la pace.