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Bufera su Gergiev, il confine difficile fra arte e propaganda

Valery Gergiev e Vladimir Putin

Il ministro Giuli: «L’arte è libera ma il Maestro è amico di Putin». Il concerto a Caserta è stato finanziato dalla Regione Campania

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Nelle sale a cannocchiale della Reggia di Caserta, dove l’eco dei calessi borbonici sembra non essersi mai del tutto spento, il 27 luglio dovrebbe alzarsi la bacchetta di Valerij Gergiev. Il programma annuncia Verdi, Ravel e Ciajkovskij, ma in anticipo sull’attacco dell’oboe il concerto è già diventato un G20 in miniatura, con Ministri della Cultura e Governatori a contendersi il podio.

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Il primo a far vibrare la grancassa è stato Alessandro Giuli, ministro della Cultura con una spiccata predilezione per il corpo a corpo dialettico. Tra un tweet su Platone e un’intervista in cui cita Julius Evola come se fosse un vicino di ombrellone, Giuli ha bollato l’evento come «divisivo» e «a rischio propaganda». Non che l’ex Presidente del Maxxi disdegni la polemica: l’ultima con il Corriere della Sera in questi giorni, con Report per una puntata, e con mezzo mondo dell’arte contemporanea. Il risultato, puntuale, è sempre lo stesso: battage gratuito, crescita esponenziale di click e la sensazione che il dibattito culturale, in Italia, abbia assorbito tutti i difetti dei talk-show per alimentarsi.

Valery Gergiev
Valery Gergiev



Valerij Gergiev, dal canto suo, tace. È abituato a far parlare la musica per lui e, quando serve, il Cremlino. Nel 2008 diresse un concerto-requiem tra le macerie di Tskhinvali, all’indomani dell’intervento russo in Georgia; nel 2014 firmò l’appello degli artisti a sostegno dell’annessione della Crimea; nel 2016 trasformò le rovine di Palmira in un fondale sonoro per la gloria di Mosca.

Due anni fa, mentre i carri armati entravano a Kharkiv, la Fondazione Anticorruzione di Alexei Navalny pubblicò un’inchiesta che lo dipingeva come il direttore finanziario – oltre che musicale – della guerra di Putin, accusandolo di aver dirottato fondi “per giovani talenti” verso jet privati e case di pregio. Da allora l’Orchestra di Monaco lo ha congedato, la Royal Swedish Academy lo ha cancellato dagli annali e persino La Scala gli ha sbattuto la porta in faccia. Eppure, a Caserta, sarà ospite d’onore.

Sul piano politico il copione si scrive quasi da sé. De Luca, governatore-mattatore, difende il festival come fosse il suo regno di mezz’estate, accusando gli avversari di alimentare «fiumi d’odio» e ricordando che in Campania si è accolto «più di un bambino ucraino». Il Partito democratico, da Bruxelles a Salerno, tuona contro «il propagandista dello zar», la Lega risponde che censurare un concertista ci renderebbe «identici a ciò che combattiamo». In mezzo, Bruxelles balbetta che il festival non ha fondi europei, ma guardandosi bene dal prendere posizione. E gli spettatori, intanto, provano a capire se dovranno fischiare il direttore, applaudire l’orchestra o registrare una story neutrale da postare su Instagram.

La vicenda, in realtà, affonda radici più antiche di qualsiasi tweet. Già nel 1909 i Ballets Russes seducevano Parigi mentre lo zar cercava capitali occidentali; durante la Guerra Fredda i tour del Bolšoj rivaleggiavano con le missioni Apollo; nel 1958 il texano Van Cliburn vinse il Concorso Ciajkovskij e divenne arma di soft-power per Dwight Eisenhower. La diplomazia che impugna la bacchetta non è un’anomalia del nuovo millennio: è consuetudine di chi possiede missili e, insieme, un robusto senso scenografico.

Qui si innesta il gusto di Giuli per la schermaglia culturale. Parlare di libertà d’espressione in un Paese che ha bandito i rave con decreto lampo è esercizio di equilibrismo ironico, e il ministro lo sa. Così, con la destra mano brandisce il vessillo dell’arte libera, con la sinistra avverte che il concerto “rischia di veicolare un messaggio sbagliato”, lasciando intendere che – se fosse per lui – Caserta suonerebbe Beethoven e tanti saluti a Prokofev.

E allora restiamo al nocciolo. Punire l’artista per ciò che rappresenta recide il problema nella parte visibile, non nella radice: si può impedire a un direttore d’orchestra di salire sul palco, non si può impedire al potere di usare la musica come parata. Se Gergiev dirigerà, l’evento sarà probabilmente il concerto più analizzato e meno ascoltato dell’estate; se verrà annullato, Caserta non diventerà più pacifica, né Kiev più sicura.

Forse il punto, sottile ma ineludibile, è qui: l’arte, quando funziona, costringe a un ascolto che non concede scorciatoie morali. Ed è un ascolto tanto più necessario quanto più i conflitti armati, a forza di filtri, rischiano di diventare serie televisive da commentare sui social. Che la bacchetta di Gergiev cada o meno sul podio di Caserta, il dilemma rimarrà intero: accettare che la bellezza possa abitare anche mani compromesse, oppure imprigionarla in un recinto etico che, di solito, funziona solo per gli altri.

Chi seguirà il concerto con l’animo sgombro potrà rispondere per sé; chi urlerà alla censura o, al contrario, celebrerà la libertà senza condizioni, lo farà soprattutto per non sentire ciò che la musica – scevra di hashtag – avrebbe da dirgli. Forse soltanto la musica, l’arte, ha diritto a un passaporto diplomatico permanente, ma come separarla dalle persone? Ed è forse questa la lezione che la piccola grande querelle di Caserta ci consegna: nel tempo delle verità gridate, l’unica forma di ribellione davvero inattuale è fermarsi, ascoltare, e lasciare che la complessità risuoni. Tutto il resto – lettere di fuoco, comunicati indispettiti, minacce di boicottaggio – appartiene alla categoria degli strumenti a percussione: fanno rumore, ma non determinano la tonalità del pezzo.

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