Una fonte che resta anonima anche se segna la vita di un uomo. È attorno a questo che gira la querelle tra Adriano Sofri e Luciano Violante
Che cos’è davvero una «fonte non ostensibile»? Qualcuno che sa, che racconta, che indica un colpevole, ma che non puoi nominare, non puoi verificare, non puoi sottoporre al contraddittorio. Una fonte che resta anonima anche se la sua parola segna per sempre la vita di un uomo. È attorno a questo paradosso che si snoda la querelle sorta tra Adriano Sofri e Luciano Violante.
Sofri, che ha scontato anni di carcere proclamando sempre la propria innocenza per il delitto Calabresi, in una lettera scritta a «Repubblica» torna su un’antica vicenda: il «gran rifiuto» che Violante oppose, nel 1993, a firmare un appello in difesa di Sofri.
Perché l’ex magistrato, l’ex presidente della Camera si rifiutò? Perché si disse convinto della responsabilità di Sofri grazie a una fonte non ostensibile. E lo disse, si badi bene, quando la sentenza definitiva era ancora di là da venire. E poiché oggi si appresta a spiegare la Costituzione agli italiani in tv su Rai2, Sofri gli chiede giustamente di sciogliere questa ambiguità: «siccome si fa tardi», gli chiede di parlare. Ma Violante non si lascia convincere, persiste nel silenzio. In un’intervista rilasciata allo stesso giornale afferma che non dirà mai chi fu la fonte.
A quanto pare, ciascuno ha il suo tramonto. Come si concilia tutto questo con lo «spiegare la Costituzione», è la provocatoria ma pacata obiezione di Sofri. Come è possibile, potremmo rilanciare, da parte di un giurista ed ex magistrato, aver sostenuto la legittimità di un giudizio di colpevolezza basandosi su una fonte non ostensibile?
Certo, si difende oggi Violante, quella notizia non entrò nel processo, non fu esibita in sede giudiziale. È vero, ma in una democrazia costituzionale la regola non dovrebbe valere solo in tribunale, a maggior ragione per chi è stato magistrato. In qualunque modo ce la vogliamo raccontare, una fonte non ostensibile resta un corpo estraneo nel diritto penale: considerarla valida, da parte di un rappresentante delle istituzioni, farne un perno della propria convinzione di un marchio di colpa – per di più nel corso di un processo dall’iter giudiziario così lungo, così controverso, così tormentato – desta molto più di una perplessità. Violante afferma che quella fonte non era pubblica.
Ma il suo giudizio sì. Lo è tuttora. E se una fonte non ostensibile contribuisce a consolidare una convinzione, a rafforzare una cornice di sospetto, a giustificare un rifiuto di adesione a un appello di innocenza, allora vuol dire che quella fonte ha operato nello spazio che forma l’opinione pubblica, e dunque anche la reputazione di un uomo. Il garantismo non è solo un dispositivo procedurale: è una cultura di responsabilità.
E proprio per questo non può avere un doppio standard, uno pubblico e uno privato, né improvvide amnesie. La Costituzione – Violante lo sa molto meglio di noi – va assunta come regola viva ogni volta che un rappresentante delle istituzioni usa la parola pubblicamente. Se quella parola – che si esprime anche nella scelta di firmare o meno un appello e nel dichiararne il motivo – è suggerita da una fonte riservata che incide su un giudizio di accusa, allora renderla ostensibile almeno oggi, a tanti anni di distanza, sarebbe come minimo un obbligo di chiarezza pubblica.
Violante parla di un vincolo alla riservatezza. Ma un vincolo verso chi? E a spese di chi? Se non si risponde a queste due domande si rischia di cadere in un equivoco morale. L’equivoco cioè che possa esistere un sapere riservato, una verità da corridoio capace di pesare sulla libertà di un individuo – o nel giudizio sulla responsabilità di un individuo, che in fondo è lo stesso – senza mai farsi parola comune. Per questo fa benissimo Sofri a sollecitare Violante a parlare. Chiede semplicemente di fare luce. Ma l’ostinazione al silenzio di Violante dice molto più di quel che vorrebbe tacere.
È, a tutti gli effetti, eloquente. Dice, forse, anche di vecchi retaggi di un vecchio partito che ha avuto un modus operandi mai del tutto estinto nei suoi iscritti, anche se sopravvive in forma residuale, in tracce mnestiche, in riflessi automatici, che perseverano come abito mentale: una disciplina del silenzio, una fedeltà alla linea, una riservatezza di apparato che contava più della responsabilità pubblica. Mentre qui non serve neanche essere giuristi per capire che ci troviamo di fronte a un avvitamento, a una torsione etica che riflette una contraddizione elementare: non si può invocare la Costituzione e nello stesso tempo accettare che un convincimento di colpevolezza maturi fuori da ogni spazio di prova.
Chi ha esercitato la funzione di magistrato dovrebbe considerare a priori irricevibile ogni fonte che non si renda disponibile, discutibile. Dovrebbe avere cioè inciso nel suo Dna l’art. 111 della nostra Costituzione sul giusto processo, perché l’inammissibilità di una fonte che accusa qualcuno chiedendo di restare anonima è ciò che distingue uno Stato di diritto da un regime di sospetti.
La richiesta di Sofri è pertanto una richiesta di coerenza costituzionale. Niente di più, niente di meno. Se la fonte ha davvero inciso così profondamente sulla sua reputazione, se ha determinato un rifiuto pubblico, se ha alimentato a suo tempo una condanna morale parallela, allora perché non sottoporla oggi allo stesso vaglio di ogni altra testimonianza che pesi sulla libertà di un uomo? Una domanda semplice, che non riguarda solo Sofri, il caso Calabresi o Violante. Perché la verità, in una democrazia, dovrebbe essere un bene indivisibile. Tanto più se diventa un criterio di colpevolezza. E chi la sottrae, fosse anche per un vincolo alla riservatezza, finisce sempre per sottrarre qualcosa a tutti.