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Eutanasia, la misura di una sentenza giusta. Il caso alla Consulta

Manifestazione per il fine vita

È la prima decisione che la Corte Suprema prenderà sul tema. Libera, 55 anni, paralizzata, vuole il suo medico per somministrarle il farmaco

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In queste ore la Corte Costituzionale sta per tornare a pronunciarsi su un tema che ha già affrontato in passato, dando indicazioni chiare, precise, ma disattese. Il «fine vita» in Italia è infatti una di quelle questioni che dividono, come tutti i temi che toccano paure ataviche. Ma proprio perché così legata a una componente irrazionale, perfino archetipica, è anche materia scivolosa, controversa, soggetta come poche altre a strumentalizzazioni ideologiche. Spauracchio per chi lo vede come l’anticamera del nichilismo oppure vessillo da sbandierare come sinonimo di progresso.

Per questo la politica ha preferito chiudersi in un cul-de-sac, trasformando la prudenza in inerzia istituzionale e stallo legislativo, se non proprio in manifesta incapacità di decidere. Nella sentenza sul caso Cappato-DJ Fabo, nel 2019, la Consulta ha riconosciuto che l’aiuto al suicidio, entro limiti rigorosissimi, non può essere trattato come «omicidio del consenziente». Ha aperto un varco stretto e vigilato, appunto entro quei limiti: paziente lucido, patologia irreversibile, sofferenze intollerabili, dipendenza da trattamenti vitali.

Il videocommento – Suicidio assistito, non è un reato ma non è un diritto di Alessandro Barbano

Da allora, la giurisprudenza ha fatto passi cauti ma significativi, riaffermando il principio basilare che la vita è «bene indisponibile» nella normalità, ma riconoscendo la possibilità di contemplare delle eccezioni. Il riformismo laico di cui avremmo bisogno, in fondo, è tutto qui: nel distinguere la regola dall’eccezione. Eppure questa distinzione non si è mai tradotta in legge. Il Parlamento ha depositato negli ultimi anni testi che sono rimasti impigliati in una palude di rinvii e interruzioni.

Con il risultato di avallare una disparità di trattamento: chi ha i mezzi, la forza, l’appoggio di un’associazione o di un avvocato, riesce forse a far valere quel varco giuridico costituzionale, mentre chi non li ha resta solo. Ora la Consulta si sta confrontando, per l’appunto, su un caso ancora più estremo: quello di chi, paralizzato in ogni funzione motoria, non può compiere da solo l’atto di assumere il farmaco letale. Se la regola impone che il gesto finale sia del malato (suicidio assistito) e non del medico (eutanasia attiva), è possibile ipotizzare anche qui una deroga, nel momento in cui la volontà è lucida ma il corpo non obbedisce?

Se la Consulta accogliesse il ricorso si stabilirebbe che l’intervento attivo del medico non è più qualificabile come «omicidio del consenziente» (art. 579 c.p.), in presenza di condizioni rigorose (le stesse del suicidio assistito, ma in più l’incapacità fisica di compiere l’atto finale). Si allargherebbe così la portata delle sentenze precedenti e la linea di confine tra aiuto e omicidio verrebbe ridisegnata. Se invece la Consulta dovesse esprimere parere negativo, resterebbe in vigore l’art. 579 c.p. senza deroghe, e il suicidio assistito continuerebbe a esistere solo nella forma originaria, per cui nei casi di malati incapaci di assumere il farmaco autonomamente l’accesso al «fine vita» sarebbe impossibile. In entrambi i casi ne deriverebbe, comunque, un dovere di regolamentazione, altrimenti i casi specifici continueranno a generare contenziosi, poiché la Costituzione tutela la dignità (art. 2) ma anche il principio di legalità penale (art. 25).

Basti pensare che, per difendere la vita, lo Stato impone ai cittadini l’obbligo di indossare un casco in moto o le cinture in auto, anche contro la loro volontà. O che l’articolo 5 del Codice Civile vieta gli atti di disposizione del proprio corpo che ne compromettano l’integrità permanente. Sono simboli di un patto di civiltà: proteggere la vita anche da noi stessi, perché la vita non è un possesso individuale come un oggetto qualsiasi. Ma questo stesso principio, se diventa un feticcio assoluto, può rovesciarsi nella negazione della dignità in alcuni casi-limite, quando la sofferenza sconfina nell’umiliazione, quando la medicina non cura più ma è ostinazione. La libertà di morire, dunque, non può essere un’arma di propaganda, né la tutela della vita un alibi per abbandonare chi soffre. Come si esce, allora, da questa contraddizione?

Seguendo le linee indicate dalla Consulta, che non potranno essere stravolte dalla sentenza in arrivo, in entrambi gli esiti. Quali sono queste linee? L’aiuto a morire non sia un diritto generale alla morte, ma un rimedio estremo a un’eccezione estrema, incastonata in una trama di garanzie giuridiche, scientifiche, etiche. Occorre per questo che la politica si assuma le sue responsabilità: qualunque sia il responso della Consulta, è il legislatore che deve colmare le lacune, per dare certezze ai malati e ai medici, ed evitare che ogni singola storia finisca davanti a un tribunale o sulle pagine di cronaca come dramma individuale trasformato in uno show mediatico e di polarizzazione. I casi di altri Paesi, come la Svizzera, il Belgio o l’Olanda, ci dimostrano che il tema resta ambiguo e irrisolto, e che nessuna norma basta da sola a governare la zona grigia in cui la vita e la morte si sfiorano. Ma non è più pensabile rinviare oltre.

Forse la misura di una democrazia matura e di un riformismo laico è riconoscere che la morte è un evento che chiama in causa non una fazione contro l’altra, un’ideologia contro l’altra, ma la comunità tutta – dalla famiglia al medico, dal legislatore al volontario – per uno sforzo di riflessione e confronto collettivo. E che la qualità della legge si misura non solo nei diritti che proclama, ma nei doveri di cura che riesce a rendere esigibili. 

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