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Me ne torno in ufficio: il caldo manda ko lo smart working

Foto di un ufficio

Nella mappatura del calore nelle città italiane i quartieri che rendono l’aria respirabile coincidono con aree di alta residenzialità

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Monteverde Vecchio a Roma, zona vecchia fiera a Milano, Posillipo a Napoli. Nella mappatura del calore nelle città italiane i quartieri che rendono l’aria più respirabile coincidono con le aree di alta residenzialità. Potremmo dire che nella scala del caldo si riflettono le gerarchie sociali. Un dato che è destinato ad innescare nuove forme di rivalsa e rancore sociale.

Stiamo andando verso un mondo tropicalizzato, in cui le alte temperature sconvolgeranno abitudini e modelli
di vita che avevamo collaudato in secoli di vita temperata. Oggi muoversi in ambienti arroventati cambia sia la nostra attività professionale che, in molti casi, la stessa conduzione di vita. L’invecchiamento della popolazione espone quote sempre maggiori di cittadini ad un clima inclemente, che logora il sistema vascolare. Ma anche nelle attività ordinarie vivere in zone più calde peggiora il lavoro e rende meno serene le relazioni sociali.

I primi timidi tentativi di pensare ad un welfare del caldo, in cui ritmi, orari e forme di attività si adeguino
all’incremento dei gradi centigradi, indicano un’emergenza ma certo non risolvono il problema. Non possiamo permetterci di riprodurre anche su questo tema differenze e diseguaglianze che ormai suonano come insopportabili.

Ci sono lavori, penso all’agricoltura o all’edilizia, o alle manutenzioni stradali limite, dove è indispensabile una vera moratoria. L’estate più dell’inverno è ormai una stagione dove non si può lavorare all’aperto. Ma anche altre attività, formalmente più moderne, come i riders, e l’intera logistica di magazzini e piattaforme digitali, sono al confine dell’insopportabilità.

Ma paradossalmente il bubbone che sta scoppiando è una sorta di smart working al contrario. Nelle condizioni attuali, dove i quartieri periferici e più popolari sono delle vere fornaci, lavorare a casa sta diventando una condanna, mentre andare in ufficio, in spazi refrigerati dall’aria condizionata è diventata una consolazione.

Siamo ad un ritorno alla presenza, come forma di contrasto al caldo. E questo ci impone di revisionare norme
appena revisionate sulla flessibilità delle prestazioni. Gli uffici, e in generale le zone direzionali ritornano a popolarsi di pendolari del caldo che cercano oasi refrigerate. Un fenomeno che sposta proprio sulle città la responsabilità di programmare dei veri e propri piani regolatori dei flussi di attività e movimenti in relazione alla tipicità del territorio, a partire proprio dalla variabile del clima.

Il federalismo climatico potrebbe finalmente dare un senso a quell’autonomismo di regioni e città che è ancora
in cerca di autore. La radicalizzazione climatica, con una nuova centralità delle differenze territoriali che interferiscono sui comportamenti più abitudinari e sulle forme di organizzazione del lavoro spinge la politica locale ad integrare competenze e saperi.

Infatti una programmazione territoriale che fronteggi i picchi meteo implica una capacità di calcolo e previsione
del microclima molto accentuata. Una capacità che dovrebbe poi portare, con estrema sollecitudine ad
adeguare il regime degli orari, suddividendo la giornata in spicchi vivibili, e delle condizioni fisiche di attività.

Il climatechanging, inteso come processo di mutazione irreversibile delle condizioni dell’ecosistema terra potrà essere discutibile, ma quello che ormai appare fin troppo evidente è il climatechanging come trasformazione
di comportamenti e relazioni indotte e organizzate dalle variabili climatiche. Un tema che dovrebbe spingere la politica e lo stesso benemerito movimento ecologista ad una riflessione su come combinare difesa dei limiti di sostenibilità del pianeta con strategie che possano rendere l’evoluzione dell’ecosistema premessa di un cambio di civiltà e non la sua tomba.

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