Il terribile copione di chi viene arrestato senza sapere il perché, e improvvisamente viene catapultato in carcere da innocente, rimanda ad un tragico remake del caso Tortora. Un blitz notturno, le forze dell’ordine che irrompono nella vita intima di una persona, ed un muro di accuse gigante come una montagna che ti cade addosso. E ancora, l’abuso della custodia cautelare, che è una condanna anticipata condita dall’onta del metodo mafioso che resterà comunque addosso alla vittima.
L’ultimo protagonista dell’ennesima storia di malagiustizia è Mario Vardè, imprenditore nel settore delle scommesse online con regolare licenza maltese, travolto dall’inchiesta ‘Gambling’, condotta dalla Dda di Reggio Calabria. Assolto di recente dopo un incubo durato dieci anni, nove passati nelle pieghe del processo di primo grado, dal 2016 al 2025. Ma soprattutto 4 anni di carcere, dal 2015 al 2019, terminato con la scarcerazione per decorrenza dei termini.
Una «condanna senza reato»
A pesare sulla applicazione sproporzionata della custodia cautelare nei suoi confronti, come spiega il difensore, l’avvocato Giuseppe Milicia, «la contestazione dell’aggravante mafiosa, un’accusa grave che ha comportato una sorta di inamovibilità della misura. Altrimenti non sarebbe rimasto così a lungo dietro le sbarre». Così le «fattispecie associative, come quelle contestate al mio assistito, hanno giocato un ruolo chiave, inasprendo la presunzione di pericolosità del soggetto».
Ma a raccontare l’incubo che ha spazzato via il suo lavoro, la sua serenità e soprattutto la sua dignità, è lo stesso Vardè. Con parole che fanno tremare i polsi: «Sono entrato in carcere con un figlio di due anni, sono uscito che a stento mi riconosceva. Ho vissuto l’angoscia di una richiesta di condanna a 25 anni e notti in cui il silenzio della cella era assordante». E ancora, la cruda testimonianza di cosa significa cadere nelle maglie dell’ingiustizia, con altri dettagli tremendi: «Ho visto i miei genitori invecchiare dietro un vetro e i miei figli crescere senza di me. Ho scelto il dibattimento per dimostrare la mia innocenza, mentre altri coimputati, pur dichiarandosi estranei ai fatti, hanno optato per il rito abbreviato e sono stati condannati. Questa non è giustizia: è una condanna senza reato».
La custodia in carcere è la misura cautelare più usata
Una piaga quella dell’abuso della custodia cautelare, di dimensioni allarmanti: come emerge nella relazione al Parlamento sulle Misure Cautelari Personali e la Riparazione per Ingiusta Detenzione del 2024, la custodia in carcere rappresenta la misura cautelare personale coercitiva più usata (28,9% del totale). Nei procedimenti definiti (anche se non in via definitiva) nello stesso anno in cui è stato emesso il provvedimento, nel 12% dei casi in cui è stata emessa una misura cautelare personale coercitiva l’esito è stata l’assoluzione o il proscioglimento.
Nel caso di Vardè l’agonia è stata lunga.
Era l’estate del 2015 quando l’imprenditore, considerato la ‘testa di legno’ di una società dietro cui agiva la ‘ndrangheta, fu arrestato con altre 50 persone, in una maxi operazione che aveva portato al sequestro di 1.500 punti scommesse e di beni per un valore dichiarato di due miliardi di euro, tra Italia e diversi Paesi esteri. Il Tribunale di Reggio Calabria a distanza di ben dieci anni lo ha prosciolto con formula piena ‘per non aver commesso il fatto’, escludendo in radice l’aggravante mafiosa e la stessa sussistenza dei reati contestati. Una storia su cui non è stata ancora scritta la parola fine, poiché siamo solo al primo grado di giudizio.
Molto probabilmente, sottolinea il difensore di Vardè, «l’assoluzione verrà impugnata visto il tenore delle accuse che sono state rivolte al mio assistito e ad altri e nonostante il teorema accusatorio si sia sgretolato. Nel frattempo attendiamo le motivazioni della sentenza».