Chi è alla ricerca del vertice decisivo, chi cerca il summit risolutivo e la stretta di mano storica quasi sicuramente resterà nuovamente insoddisfatto. Dopo il passaggio di Anchorage, l’importante riunione di Washington tra il presidente Trump, il presidente Zelensky, alcuni leader europei e i vertici di Ue e Nato deve essere inserita all’interno di una più complessa architettura di incontri al vertice successivi all’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump. Il quadro è in movimento, ma ben lungi dall’aver trovato un suo equilibrio. All’interno di questo “mondo in divenire” il vertice in Alaska e quello di Washington possono essere legati in un continuum che evidenzia almeno tre punti forti.
Il primo di questi riguarda proprio il molto discusso incontro Putin-Trump del giorno di Ferragosto. Senza ribadire la dicotomia vincitori e vinti, senza indugiare ancora sull’importante simbolismo e l’indubbio successo di immagine di un vero paria delle relazioni internazionali quale è Vladimir Putin dopo l’avvio dell’invasione dell’Ucraina, occorre sottolineare che ad Anchorage a dominare è stata una sorta di “cold war nostalgia”. Un rassicurante mondo bipolare dominato dalle due superpotenze nucleari, con i loro leader che si incontrato e si legittimano reciprocamente. Per Putin la nostalgia può essere indicata come surrogato di quella ferita mai rimarginata dopo la tragica fine dell’Urss.
In questo senso la felpa vintage di Lavrov (recante la scritta Cccp) vale più di ogni gesto e di qualsiasi parola. Trump, dal canto suo, è parso utilizzare in maniera strumentale tale ritorno al passato per quello che è il suo unico obiettivo, quando si parla di Russia: cercare di sottrarre Putin dall’abbraccio di Xi Jinping.
Attenzione però l’Alaska è solo il primo atto di una pièce ancora tutta da scrivere. E il secondo atto, cioè il vertice in corso a Washington mentre si scrivono queste righe, ne costituisce una parte importante. Da un lato convocando Zelensky soprattutto insieme agli alleati europei, Trump ha implicitamente ammesso quanto sia importante il loro ruolo per stabilizzare una situazione che desidera chiudere ogni giorno di più, consapevole che il tempo non gioca a suo favore, sia per come stanno andando le cose in Medio Oriente, sia per la complicata evoluzione della politica dei dazi. Anche se Trump ama ripetere di aver fermato già sei guerre in sei mesi, in realtà i risultati tangibili di questo suo primo anno alla Casa Bianca stentano a definirsi. Sul versante ucraino, al netto delle sue boutade, comincia a giocarsi una parte consistente di credibilità.
Dall’altro lato di estremo interesse è il formato con il quale gli alleati europei si presentano a Washington. Nella delegazione troviamo rappresentate le istituzioni di Bruxelles, con la presenza di Ursula von der Leyen. Accanto a queste i tre grandi Paesi fondatori del processo di integrazione europeo, cioè Berlino, Parigi e Roma. Sappiamo bene che i tre condividono forse più differenze che similitudini nel loro approccio prima di tutti nei confronti della presidenza Trump, ma sul dossier Ucraina il triangolo appare piuttosto solido. Ancora della delegazione sono il Primo ministro britannico e il presidente finlandese.
Al netto dell’interessante richiamo alla passione comune tra Trump e Stubb per il golf, di estremo significato è la presenza di Londra, sempre più dentro le questioni europee nonostante Brexit, e di Helsinki, vero simbolo di quell’Europa del nord e dell’est che vive in prima linea il rischio strategico di Mosca. I 1340 chilometri di confine tra Finlandia e Russia e l’ingresso di Helsinki nella Nato (insieme a Stoccolma) dovrebbero avere un senso soprattutto per chi continua a richiamare alla memoria Papa Francesco e la sua, invero molto discutibile, immagine di Alleanza atlantica «abbaiante ai confini della Russia». A completare il quadro è poi il segretario generale della Nato Rutte. E anche in questo caso sarebbe opportuno evitare di fermarsi al famoso messaggio in occasione del vertice di giugno e ricordare che, ad oggi, rafforzare il pilastro europeo della Nato stessa resta l’unica via plausibile per garantire la sicurezza continentale, in attesa di una difesa europea tutta da pensare, prima ancora che da realizzare.
Proprio il tema della difesa continentale apre al terzo fondamentale punto da non trascurare osservando la sequenza Anchorage-Washington. Se in Alaska aleggiava lo “spettro” della Guerra fredda, la presenza europea accanto a Zelensky testimonia che finalmente il Vecchio Continente ha iniziato a pensare, facendo uso del realismo politico, un futuro post-bipolare. Qualcuno potrà affermare che tutto ciò avviene con un trentennio di ritardo ed è impossibile da contraddire. Ma finalmente l’impressione è che proprio con la sua scellerata “operazione speciale”, Putin abbia risvegliato coloro che avevano fatto la figura dei sonnambuli dal 2008 (invasione russa della Georgia) in avanti.
Come di recente ha ricordato il sempre lucidissimo Sabino Cassese, storia e geopolitica sembrano prendersi le loro rivincite in questi mesi così convulsi. La storia non è né morta, né finita come si è, dopo il crollo bipolare, finto di credere. Ma non solo: la geopolitica senza la storia è puro esercizio di stile. Da Pietro il Grande a Vladimir Putin, passando per Caterina II e Iosif Stalin: la spinta verso ovest rappresenta per la Russia un’attrazione magnetica costante negli ultimi 350 anni. Le garanzie di sicurezza che gli europei e gli statunitensi offriranno a Kiev ci diranno se la storia è riuscita ad elevare la geopolitica.
Voltare le spalle all’Ucraina, come già accaduto nel 1994 quando Kiev ha alienato alla Russia senza alcuna contropartita il suo arsenale atomico, sarebbe imperdonabile. Far capire a Trump che l’Europa esiste ed è pronta ad entrare finalmente nell’età adulta potrebbe avere un effetto benefico anche sulla delicata partita dei dazi. L’arte della diplomazia non sembra parte del bagaglio dell’immobiliarista newyorchese, eppure non dovrebbe essere difficile capire che le sirene cinesi potrebbero tornare in auge in Europa, mentre il «dear friend Putin» non sembra comunque deciso a rompere la partnership strategica «senza limiti» con Pechino.
L’antieuropeismo potrà anche caratterizzare lo zoccolo duro dell’elettorato trumpiano, ma chi scrive nutre ancora l’illusione di pensare che non tutto sia perduto. Gli europei “in missione” a Washington lo sono per loro stessi, per l’Ucraina e per il futuro dell’Occidente o perlomeno per chi spera che ne esiste ancora uno.