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Pera: «Europa inerme su Kiev. Hamas come Hitler, guerra di Israele legittima»

Marcello Pera è stato presidente del Senato dal 2001 al 2006. Nel libro scritto a quattro mani con Joseph Ratzinger, intitolato Senza radici (Mondadori 2004) si proponeva di ripensare l’identità europea attraverso il richiamo alle radici cristiane. Oggi quell’identità si trova minacciata dalla crisi della solidarietà atlantica e dalle difficoltà che il Vecchio continente incontra nel tentativo di ritagliarsi un ruolo geopolitico di rilievo.

Presidente, alla vigilia delle trattative tra Trump e Putin l’Europa si trova in una posizione difficile. La pace rischia di essere compromettente per Kiev e l’Europa si rende conto che le questioni dei confini, della demilitarizzazione e dello Stato costituzionale non sono questioni che riguardano solo l’Ucraina ma tutta la comunità europea.

«L’Europa si sta accorgendo che non è più nulla. Non è una potenza geopolitica e nel gioco geopolitico mondiale non entra. Può, al più, giocare di rimessa, con la politica delle sanzioni economiche, dei mercati o dei controdazi. Ma questi non sono mezzi potenti per gli equilibri mondiali oggi».

Cosa dovrebbe fare per ambire ad essere un attore geopolitico di rilievo? La formula tanto evocata del federalismo europeo è una vuota utopia?

«Nel dopoguerra abbiamo cominciato a costruire l’Europa partendo dal piano militare, che era la prima formulazione di De Gasperi e Adenauer, e non ha funzionato, nel senso che non si è riusciti a fare un esercito comune. Poi si è imboccata la via economica, con l’idea di costruire una comunità di carattere economico per unificare l’Europa, ma anche questa via non ha dato frutti. Poi si è presa la via politica: istituzioni comuni, come il Parlamento, la Commissione ecc. Ma anche questo non ha unificato l’Europa. Insomma, tutti i tentativi pacifici di unificare l’Europa sono falliti».

C’è stata anche una stagione in cui si è provato a unificarla partendo da alcuni valori condivisi. Lei ha scritto un libro con Ratzinger in cui si proponeva proprio di cercare questa unità nelle radici giudaico-cristiane.

«Quello fu un altro tentativo di unificazione dell’Europa attraverso il richiamo alle sue radici religiose e cercando di trovare in quelle un senso di comunità. Ma anche questo è fallito, perché il richiamo alle “minoranze creative” a cui faceva riferimento il Papa non è stato accolto».

Questi fallimenti forse richiamano il più generale fallimento del liberalismo. In tempi di polarizzazione del dibattito pubblico il liberalismo sembra a mal partito.

«Una volta che si è separato completamente dalla dimensione religiosa, il liberalismo è diventato qualcosa di diverso, una forma di laicismo che non ha prodotto nessuna unificazione. È diventato l’ideologia degli interessi individuali e della proliferazione dei diritti civili. Una specie di laissez faire su qualsiasi cosa e di anarchia laica».

Paradossalmente queste considerazioni sembrano incontrare le critiche che Putin muove all’Europa.

«Purtroppo sì, ci stiamo facendo fare la diagnosi dei nostri malanni da un tiranno come Putin. E non solo la diagnosi: ci stiamo anche facendo prescrivere la terapia. Quello che mi ferisce è proprio questo: avremmo dovuto essere noi europei a fare un’operazione di autoanalisi. Ora ci vediamo costretti a prendere lezioni da Putin».

In Europa però qualcosa si muove. La Meloni oggi rappresenta la quarta stampella della “maggioranza Ursula”. Si tratta di un fatto congiunturale legato alle emergenze che l’Europa sta affrontando oppure l’impegno della premier in questa maggioranza rappresenta un cambiamento anche valoriale?

«È un fatto politico rilevante, un ulteriore tentativo di dare un’identità all’Europa e un tentativo generoso per tentare di salvare il salvabile. Anche perché, prima della stampella, ci sono due gambe di cui una, quella socialista, è completamente perduta sul piano dei valori, e anche quella cattolico-liberale non riesce più a far valere un discorso sui valori. Alla fine di un percorso come quello che sta compiendo Meloni c’è solo l’adesione a un partito più o meno europeista. Quindi sta facendo uno sforzo apprezzabile. Ma ormai il processo di disgregazione dell’identità europea è notevole. L’operazione che sta compiendo Meloni è analoga a quella che compì Berlusconi quando scelse di aderire al Partito Popolare Europeo. Anche quella fu una scelta molto sofferta. È una forma di conservatorismo e di patriottismo europei».

Torniamo al fronte ucraino. Putin sembra voler imporre una pace che ritagli i confini sulle quattro province occupate, che demilitarizza l’Ucraina e ne disarticola l’unità nazionale. L’Europa dovrebbe avere paura di una pace di questo tipo?

«La pace tra Putin e Trump è il sigillo della spaccatura tra gli Stati Uniti e l’Europa. È un fenomeno enorme e ormai temo irreversibile. Gli Usa ci hanno abbandonato e noi europei non siamo ancora pronti per essere un soggetto geopolitico. La situazione è questa: la pace la fanno gli americani e, dal punto di vista europeo, quella pace è ingiusta. Ma di fronte a questa ingiustizia l’Europa è impotente».

Alla luce della crisi dei valori di cui parlava, gli americani non avrebbero bisogno di noi europei?

«Ne avrebbero bisogno, ma non è un bisogno immediato. Però Usa ed Europa vengono dalla stessa storia, l’America non si spiega senza la storia europea. Se lì si crea una spaccatura per ragioni contingenti, perché il nemico è la Cina, l’Europa non è più d’alcun aiuto per gli Usa».

Sul quadrante mediorientale è spiccata la timidezza di Giorgia Meloni. L’Italia avrebbe dovuto sentirsi chiamata a una maggiore assunzione di responsabilità?

«Io credo che Israele stia perdendo la battaglia dell’opinione pubblica a causa delle quinte colonne sparse in Europa. L’opinione pubblica occidentale si è limitata a piangere e strillare e ha perso di vista le ragioni di quel conflitto, che sono nella sicurezza e nel diritto all’esistenza di Israele. Anch’io sono toccato dalle immagini dei bambini palestinesi, ma non per questo sposo la causa di chi vuole la cancellazione di Israele. Sarebbe molto facile ottenere la pace: basterebbe che Hamas riconoscesse lo Stato di Israele e si dicesse disposto a negoziare i confini e a restituire gli ostaggi».

Anche i Paesi arabi lo hanno capito.

«Sì, hanno capito che Israele sta facendo il lavoro sporco per loro».

È anche vero che quando ha bombardato la tenda di Al Jazeera Netanyahu ha detto che quelli erano terroristi. Poniamo che sia così: questo vuol dire che l’interconnessione tra società civile e terrorismo è talmente profonda che l’operazione militare potrebbe non bastare per separare quelle due dimensioni.

«Io ritengo che l’occupazione militare potrebbe anche fallire. Ma il passo ulteriore che viene fatto dall’opinione pubblica occidentale è che non si riconosce ad Israele la legittimità di fare la guerra come la fanno gli altri. Anche Dresda è stata bombardata: lì c’erano i nazisti e oggi ci sono i terroristi. Rinunciare a Dresda avrebbe voluto dire accettare il nazismo. Lo stesso vale oggi con Hamas».

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