La storia non si ripete. E su questo non si discute. Ma attenzione: la storia deve essere monito per chi vive nel presente e sembra completamente ignaro del passato più o meno recente. Nel momento in cui il XXI secolo ha superato il suo primo quarto è forse tempo di qualche bilancio. Il rincorrersi delle notizie da Kiev a Gaza, passando per Washington e Pechino, ci fa dire, anche giustamente, che tutti i punti di riferimento e ogni tentativo di razionalizzazione degli eventi sembra inutile. Il quadro è dominato da incertezza e da un livello assurdo di approssimazione. Si naviga a vista e soprattutto alcuni comandanti non sembrano in grado di governare le proprie navi. Ed è a questo punto che subentra la storia: sembra respirarsi un’aria da “anni Trenta” del secolo scorso e tutto ciò dovrebbe farci riflettere e anche produrre qualche legittimo timore. Le parole chiave degli anni bui del secolo scorso, che condussero il mondo alla catastrofe della Seconda guerra mondiale, al terribile Olocausto e alla tragica conclusione del conflitto con le due bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, sembrano nuovamente fare capolino.
La prima di queste è quella del protezionismo economico. Come dimenticare che la grande crisi degli anni Trenta è economica, prodotto dell’esplosione della bolla speculativa statunitense, ma poi si diffonde a livello mondiale a seguito di alcune decisioni maldestre da parte di Washington? La scelta di aumentare i tassi di interesse statunitensi ha come effetto una tremenda recessione negli Usa e quella ancora più scellerata di alzare i diritti di dogana, provoca come controreazione una fiammata protezionista e una serie di svalutazioni competitive. L’economia mondiale dei primi anni Trenta del ‘900 entra in un buco nero fatto di perdita di produttività, disoccupazione devastante, squilibri delle bilance commerciali e dei pagamenti. Le ricadute interne a ciascun sistema economico-sociale statutario sono pesanti, aumentando i livelli di povertà e le differenze sociali.
Su questo punto come non innestare la seconda espressione chiave che ieri come oggi dovrebbe farci tremare i polsi: si tratta della crisi della democrazia politica. Le cosiddette “democrazie borghesi”, contestate dopo la Prima guerra mondiale e in alcuni casi capitolate già nel corso degli anni Venti, vedi il caso del liberalismo italiano che si getta nelle braccia del fascismo mussoliniano, subiscono nel corso degli anni Trenta un’altra scossa tellurica. Proliferano i partiti estremisti e la polarizzazione politica (e con essa la violenza) domina. Il caso più emblematico è naturalmente quello dell’affondamento della Germania di Weimar, conquistata dalle squadre d’assalto hitleriane. Ma attenzione movimenti fascisti e leghe di estrema destra emergono nel Regno Unito, in Francia (come dimenticare l’assalto al Parlamento del 1934), ma anche in Belgio, Norvegia e Paesi Bassi.
Ebbene, se parlando di protezionismo si è evitato di addentrarsi nel richiamo alle scorribande trumpiane, sin troppo evidenti, citando crisi e arretramento della democrazia politica occorre fare qualche riferimento all’oggi. Tutte le principali agenzie di monitoraggio dello stato di salute dei sistemi democratici sono concordi nell’affermare che nell’ultimo decennio le democrazie arrancano, i sistemi autoritari e autocratici prosperano. L’ultimo decennio è quello dell’affaticamento democratico. Secondo il Democracy Index per l’Economist relativo al 2024 (quello ad oggi a disposizione) il “malessere democratico” è evidente. Sui 167 Paesi monitorati, solo 37 hanno migliorato il proprio indice di democratizzazione, 47 sono rimasti stazionari e 87 lo hanno peggiorato. Quella che sembra affermarsi è una disaffezione generale nei confronti della democrazia, che si concretizza in scarsa partecipazione politica, populismo diffuso e polarizzazione dominante.
Ma queste democrazie “malate” all’interno sono spinte ad esercitare il primato della forza in un contesto di relazioni internazionali da un lato sempre più frammentate e dall’altro tendente ad articolarsi in blocchi imperiali. Anche in questo caso come non tornare con lo sguardo agli anni Trenta? Disegno hitleriano dello “spazio vitale” da un lato, ma anche imperialismo aggressivo giapponese nel contesto asiatico dall’altro. In fondo gli anni Trenta delle relazioni internazionali sono drammaticamente aperti dall’invasione giapponese della Manciuria del 1931, uno squarcio nel diritto internazionale e in quel che resta della fragile architettura della già zoppa Società delle Nazioni.
La mente non può che saltare al febbraio 2022, quando la cosiddetta “operazione speciale” di Putin ha definitivamente chiuso la già poco gloriosa stagione di un’Organizzazione delle Nazioni Unite che, perlomeno nel caso dell’invasione statunitense dell’Iraq del 2003, ha svolto un ruolo di tribuna mediatica con lo scontro epico tra il ministro degli Esteri francese Dominique de Villepin e il Segretario di Stato americano Colin Powell sulle cosiddette armi di distruzione di massa di Saddam Hussein.
Si potrebbe procedere oltre con i richiami alla sinistra “aria da anni Trenta” che sembra spirare in questi travagliati e incerti mesi. Ma l’intento di questa riflessione non è quello di essere deterministici. La storia non deve offrire previsioni, ma aiutare a porsi le giuste domande per cercare qualche risposta sensata agli interrogativi del presente. Ebbene di quegli anni Trenta sappiamo che il livello di conflittualità e caos globale avrebbe finito per condensarsi nel drammatico secondo conflitto mondiale. Ma sappiamo anche, grazie alla ricerca storica, che proprio nel corso di quegli anni Trenta e dei primissimi anni Quaranta importanti intellettuali appartenenti alla tradizione liberale (si pensi ai britannici John Maynard Keynes e William Beveridge), politici socialisti quali il francese Léon Blum, intellettuali cattolici come Emmanuel Mounier e Jacques Maritain, ma anche Alcide De Gasperi esiliato, dopo il carcere, nella Biblioteca Vaticana, vivono la crisi e ne pensano il superamento, combattono con le armi della proposta intellettuale e politica per preparare un dopo, mentre stanno vivendo un prima.
C’è traccia di tutto ciò nel 2025, mentre viviamo nell’“età dei predatori”? È forse su questo punto che dovremmo fissare la nostra attenzione. La situazione è complicata, i punti di riferimento sembrano eclissati ma soprattutto è l’assenza di un pensiero per il dopo, di una elaborazione per il domani ad essere clamorosamente assente.
Un ultimo richiamo alla storia non può mancare nel momento in cui giungono notizie di un possibile incontro al vertice tra Donald Trump e Vladimir Putin, per discutere del futuro dell’Ucraina. In fondo gli anni Trenta del secolo scorso, di cui si è a lungo riflettuto in queste righe, si chiudono tra il 1936 e il 1938. La prima data segna l’avvio della guerra civile spagnola, vera prova generale del secondo conflitto mondiale, per carica ideologica e violenza bellica. La seconda è marcata dalla tragica farsa degli accordi di Monaco, con la vittoria dei cosiddetti appeasers (guidati dal britannico Neville Chamberlain) pronti a concedere tutto ad Hitler, prendendo come garante Mussolini, l’invasore dell’Etiopia, nell’assenza degli Stati Uniti di F. Delano Roosevelt.
Ebbene due voci da mesi, o meglio anni, suonano l’allarme, inascoltate Cassandre: una a Londra e una a Parigi, si tratta di Winston Churchill e Charles de Gaulle. Il primo attacca a spada tratta i colleghi conservatori e il secondo ha passato tutti gli anni Trenta a mettere in guardia dalla nuova potenza bellica tedesca e più in generale dalla sua minaccia industrial-tecnologica. Li ritroveremo a partire dall’estate del 1940 entrambi a Londra, unici baluardi del mondo libero nella prima fase di avanzata apparentemente incontrastata delle forze dell’Asse. Bertold Brecht afferma: sventurata la terra che ha bisogno di eroi. Di qualche Cassandra, oggi, ci sarebbe forse bisogno….