Vorrei odiarvi, perché mi avete rovinato la vita. Pensavo a voi quando ho fatto domanda di obiezione di coscienza, pensavo alle migliaia di giovani che bruciavano le cartoline per il Vietnam, mentre fumavo le prime canne, quando la serata non era completa se prima non avevamo ascoltato un po’ di jazz maledetto in qualche locale underground o in casa di amici, trasudando voglia di vita e libertà da tutti i pori. Era colpa tua, Allen Ginsberg, quando urlavi «ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla pazzia», era colpa tua Ferlinghetti quando scrivevi «La Bomba è la poesia della nuova epoca». Ci avete convinti che anche la pazzia era meglio della normalità. Colpa tua, Abbie Hoffman, con quel «Ruba questo libro» che non era solo un titolo, ma un’istruzione precisa su come vivere: sovvertire, ridere, scappare.
Era tutto così semplice: fuck the war, fuck the power. E noi ci credevamo. Credevamo che bastasse un microfono e una poesia per abbattere il Pentagono. E in qualche modo ci siete anche riusciti: la guerra del Vietnam è finita anche grazie ai vostri urli. Il Processo ai Sette di Chicago, i Fugs che cantavano “Kill for Peace” mentre Nixon tremava dietro le sue menzogne. E noi giù, nei sotterranei, a leggere “On the Road” come fosse la Bibbia del nostro nomadismo interiore. Ogni pagina un biglietto di fuga, ogni riga un pugno al conformismo.
E adesso? Adesso siamo tornati in un mondo dove la guerra non finisce mai, dove la Bomba, quella con la B maiuscola che Ferlinghetti evocava nei suoi versi, non è più solo un’arma nucleare ma un’intera cultura: bombardati di immagini, di fake news, di paure costruite a tavolino.
Ma la vostra eredità non è morta, anche se i giovani non la vedono in prima serata. Anche perché non esiste più la prima serata, esistono i social. Oggi le urla di Ginsberg le ritroviamo nei testi di Kendrick Lamar quando canta «We gon’ be alright» nei cortei contro la brutalità della polizia. La furia beffarda di Hoffman la troviamo nei meme sabotatori che girano su TikTok, negli hacker collettivi che mettono a nudo i segreti del Potere e si firmano come voi: “Yippies 2.0”. I nuovi poeti beat sono collettivi di spoken word a Brooklyn, come «The Performance Poets», che sputano versi su gentrificazione e razzismo nei locali bui, dove l’America vera suda e sanguina ancora.
E anche la strada non è morta. Ci sono migliaia di “On the Road” digitali, ragazzi e ragazze che partono in van scassati a cercare la libertà fuori dagli algoritmi, raccontandolo su YouTube come facevano Kerouac e Neal Cassady, solo con più connessioni e meno benzina. La Beat Generation non è scomparsa, ha solo cambiato pelle, si è fatta virale, sotterranea, molecolare.
Ma c’è una differenza: voi credevate nella pace come un’utopia a portata di mano, noi la vediamo come un miraggio che si allontana a ogni passo. Siamo cresciuti credendo che la guerra fosse un ricordo, e invece la guerra è diventata lo sfondo permanente, una musica di sottofondo a cui nessuno fa più caso. Ma sotto questa coltre di cinismo, la miccia è ancora accesa.
Vorrei odiarvi, tutti voi della Beat Generation, perché mi avete fatto credere che la libertà era a un passo e siamo ripiombati in questo schifo di mondo dove la pace è molto più lontana di allora. Ma con sincerità, dal profondo del cuore proprio non ci riesco a odiarvi, perché avevate ragione voi: fuck the War, fuck the Power, oggi più di ieri.