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Il passo che archivia due popoli e due Stati

Il conflitto a Gaza

L’occupazione totale di Gaza mette fine a un equivoco. L’equivoco si chiama Oslo, la città in cui, nel 1993, palestinesi e israeliani raggiunsero per la prima volta un accordo riguardo ai principi che avrebbero regolato «l’autogoverno ad interim» del popolo palestinese nella Striscia e in Cisgiordania. Speranza per la comunità internazionale, speranza per l’America di Bill Clinton, alla cui presenza Yitzhak Rabin e Yasser Arafat si strinsero la mano, nel giardino della Casa Bianca, speranza per gli stessi negoziatori e per i due popoli, che muovevano il primo passo vero in direzione di un reciproco riconoscimento, ma equivoco funesto, «errore terribile» per Benjamin Netanyahu. Il premier israeliano lo ha ripetuto negli anni. La pensava così allora, quando la Dichiarazione di principi fu firmata, e non ha mancato, in seguito, di ripeterlo in pubblico; la pensava allo stesso modo all’indomani del 7 ottobre, e continua a pensarla uguale oggi, se ritiene che non vi sia modo per chiudere il conflitto a Gaza diverso dall’occupazione, dall’amministrazione militare, dalla fine di ogni percorso di autonomia e autogoverno.

Si dice Netanyahu ma si dovrebbe dire Israele. Forse, finita la guerra, Netanyahu perderà il potere, inseguito dalle accuse di corruzione ma anche dal peso delle responsabilità per le falle nella sicurezza che hanno consentito ad Hamas di perpetrare l’orrendo eccidio del 7 ottobre. Allo stato attuale, però, non solo i coloni o gli estremisti religiosi, ma la maggioranza del Paese è disposta a seguirlo: niente Hamas, dunque, ma anche niente territori in cambio di pace, niente due popoli due stati, niente diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, la sicurezza di Israele non può essere raggiunta se non manu militari.

Se si considera che nel ’93 gli accordi di Oslo passarono alla Knesset con uno scarto risicatissimo – 61 voti su 120 – si comprende bene come il delicato equilibrio di un testo che lasciava peraltro molti punti in sospeso, che tra le altre cose non stabiliva ancora in qual modo si sarebbe giunti al ritiro dai territori occupati, avrebbe avuto bisogno, per dare i suoi frutti, di una complessa concomitanza di fattori, sia interni che internazionali, da una parte e dall’altra. Invece prevalsero le spinte opposte: riprese la scia di attentati terroristici, lo stesso Rabin fu ucciso per mano di un fanatico estremista della destra israeliana, il percorso negoziale ben presto si arenò.

Netanyahu lo aveva sempre sostenuto: non si torna al ’67, a prima dell’occupazione. Di più: Netanyahu ha sempre creduto che quegli accordi andassero stracciati, che i numerosi episodi di terrorismo ad essi seguiti davano ragione al suo scetticismo, e che dunque non c’è che una strada: colpire, colpire duro, «con una violenza tale da rendere il prezzo da pagare insopportabile», portando i palestinesi sino al punto in cui dovranno temere che «tutto è sul punto di collassare». Le parole tra virgolette sono di un Netanyahu privato, in visita ai coloni nel 2001, quando non aveva incarichi istituzionali, ripreso in un video non ufficiale. Ma se anche si nutrissero dubbi sul documento, la condotta del governo da lui oggi guidato non lascia adito a dubbi: è proprio lo sporco lavoro che l’esercito israeliano è chiamato a fare, che Bibi vuole ora completare con l’ultima mossa. E l’ultima. Decisiva mossa rischia di gettare retrospettivamente luce su un’intera traiettoria, quella che, con la fine dell’egemonia laburista, il Likud a guida Netanyahu ha tracciato, nel corso degli anni, con sempre meno impacci, sempre meno scrupoli sia politici che diplomatici. 

Mettiamo però da parte ogni considerazione di ordine morale, o giuridico: con ogni evidenza, è quel che il premier israeliano ritiene di essere autorizzato a fare, in nome della sfida esistenziale portata a Israele, e lasciamo dunque che cadano nel vuoto gli appelli umanitari e le pressioni politiche internazionali. Mettiamo pure tra parentesi lo sgomento che sale da alcune, poche, voci critiche all’interno della società israeliana – la voce di David Grossman, ad esempio, che un deputato di sinistra ha cercato di far risuonare nella Knesset venendo allontanato di peso da un commesso  –. Può darsi che Netanyahu avrà successo. Per taluni sarà il deserto chiamato pace di tacitiana memoria, per altri l’unico modo di mettere fine a pregiudizi e ostilità verso lo Stato di Israele che si trascinano dalla sua fondazione. 

Resta, in ogni caso, l’amara constatazione che forse, per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, l’esito di un conflitto non coincide con un accordo, un patto, un’intesa o un trattato di pace. 

Non è successo nemmeno quando sono caduti dittatori – in Libia, ad esempio, o in Iraq –: neanche allora si è pensato di chiudere la pratica con l’eliminazione di una delle fazioni in lotta. A volte si è persino pagato il prezzo di gravi e perduranti instabilità, ma si è comunque agito col proposito, almeno, di trovare un accordo, di firmare uno straccio di carta.  Stavolta, invece, sembra farsi valere solo l’univocità di un discorso basato esclusivamente sulla forza. Finora Israele aveva sempre ritenuto, e aveva motivo di ritenere, di avere non solo una forza soverchiante nell’area, ma anche buone ragioni per usarla (o non usarla, come ad Oslo). Con ogni evidenza, Netanyahu fa uso della prima, la forza, ma pensa di non aver alcun bisogno di far uso delle seconde. Non è solo Oslo che viene archiviata, ma un’idea stessa di politica come unica risorsa contro la guerra.

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