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Kiev (e l’Ue) in balìa di Donald il sovrano

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Doveva disertare, invece si è insediato. Doveva indebolire l’Alleanza, invece, come suo solito, ne ha dettato l’agenda. Donald Trump è tornato sulla scena euro-atlantica non come un alleato riluttante, ma come un sovrano che reclama tributi, impone la sua visione e minaccia i vassalli infedeli. Siamo abituati ormai agli imprevedibili cambi di posizione (e di umore) del presidente degli Stati Uniti d’America, ma quello di ieri al vertice Nato dell’Aja è stato un Trump Show che ha di fatto trasformato il summit in un palcoscenico personale.

Il «Daddy» internazionale che ogni tanto deve usare le maniere forti e le parole forti, come tutti i «papà» (così, letteralmente, il segretario generale della Nato Rutte), sta incarnando davvero quel «potere tutelare» di cui parlava Tocqueville, per indicare il rischio della democrazia di scivolare in una forma di «potere tutelare» che, sotto la maschera della protezione, infantilizza i cittadini. E così, come un padre di famiglia, anche alla NATO Trump striglia, bacchetta, loda, fa due conti e impone sacrifici: incassa il 5% del Pil entro il 2035, fortemente voluto, se lo intesta come vittoria personale, pavoneggiandosi, e sposta il baricentro della NATO da un’alleanza politico-militare a una contabilità di potenza.

E chi – come la Spagna – osa manifestare dubbi, viene umiliato pubblicamente. «Sono gli unici a non voler pagare» ha tuonato Trump, promettendo di far pagare alla nazione renitente (e tuttavia allineatasi comunque) il doppio dei dazi. «A me piace la Spagna, però…», dice, usando il bastone e la carota e processando le intenzioni. Dunque l’America non abbandona la NATO, come minacciato, ma la ridisegna a sua immagine e somiglianza. È una cosa buona o cattiva per l’Europa? Deve l’Ue tirare un sospiro di sollievo per l’ombrello protettore degli Usa che non si è allontanato, oppure rammaricarsi dell’occasione mancata per emanciparsi finalmente e diventare grande, rafforzando la propria autonomia strategica?


Il vero interrogativo, enorme, di questa ultima piroetta trumpiana andata in scena a L’Aja, resta l’Ucraina. Per la prima volta, il comunicato finale del vertice non definisce esplicitamente la Russia come «aggressore» dell’Ucraina. Non si tratta certo di una distrazione. È un’assenza simbolica (e nella diplomazia, come in tutto il resto, i simboli contano), ed è un indizio politico: non nominare più l’aggressore significa lasciare aperta la possibilità di riscrivere la narrazione del conflitto, o renderla più sfumata, più compatibile con eventuali futuri negoziati.

Sotto la spinta di Trump (ma non solo sua), l’Occidente si prepara a riformulare il quadro del conflitto: non più guerra giusta contro aggressione palese, ma «crisi regionale», «conflitto da disinnescare». In questa ridefinizione, l’Ucraina perde il suo status simbolico per diventare una pedina tra le altre. Il silenzio diventa, consapevolmente o meno, una forma di concessione a Putin. Zelensky è arrivato al vertice con richieste precise – difesa aerea, adesione all’Alleanza, garanzie – ed è ripartito con qualche Patriot in più e un auspicio generico pronunciato da Trump: «Spero che la guerra finisca presto». Una frase che, pronunciata da chi non ha mai rinunciato a giocare con Mosca, suona come una frase di circostanza, priva di qualsiasi impegno concreto.

L’Ucraina rischia di restare sospesa in un limbo strategico. La guerra potrebbe congelarsi in una impasse controllata, o subire un’accelerazione nella campagna estiva. La pressione per un cessate il fuoco rapido – persino entro due settimane, ha suggerito Trump – fa ventilare l’ipotesi di una pace imposta, asimmetrica, dove territori contesi e ambizioni nazionali possono essere sacrificati sull’altare della stabilità. Senza una parola chiara sulla responsabilità dell’aggressione, senza un riconoscimento pieno del diritto alla resistenza, Kiev può diventare l’oggetto di una transazione, una merce di scambio in negoziati dai contorni non chiari. L’impressione è che l’Ucraina sia già entrata nel mercato delle ambiguità: difesa quanto basta, pace se conviene, adesione alla Nato se e quando sarà politicamente utile. Trump non ha lasciato la Nato, è tornato da occupante. E l’Europa si ritrova a oscillare tra la subordinazione e gli spettri dell’inconsistenza.

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