Era tutto troppo bello e lineare per essere vero. L’approvazione del disegno di legge su Roma Capitale non poteva che nascondere la solita partita truccata. Un do ut des mascherato da riforma, un patto di maggioranza che sa di compromesso tossico. Roberto Calderoli, il pasdaran dell’autonomia leghista, ha dato il via libera, ma non gratis. In cambio? Poteri speciali anche per Milano e Venezia.
Perché se Roma è capitale politica, Milano — ci ricorda il senatore leghista Massimiliano Romeo — è la capitale economica. E Venezia? Una “Città-Stato”, come la Serenissima. O magari una nave da crociera con funzioni municipali, pronta a fare scalo a casa dei turisti. Schizofrenia navale e istituzionale.
Mentre la Costituzione italiana continua a credere nel disegno di una Repubblica democratica, solidale e coerente, c’è chi traffica con il Lego delle autonomie: un pezzo a Roma, uno a Milano, l’altro a Venezia. Con l’effetto finale di costruire un’Italia a scacchiera, dove ogni Regione — e ogni città, a questo punto — è una capitale con poteri su misura. L’unità nazionale ridotta a slogan da sfilata, il federalismo come parodia. Un Paese arlecchino. Preso sul serio sarebbe una tragedia.
E allora rieccoli, i coriandoli autonomisti: Luca Zaia sogna una Venezia con strumenti “reali”, libera di gestire i flussi turistici come se si trattasse di code alla biglietteria del Louvre. Salvini, che non ha mai resistito al fascino dei palazzi che contano, propone di spostare la Consob a Milano. Perché no? Magari anche la Banca d’Italia a Bergamo, la Corte dei Conti a Treviso, il Quirinale a Sondrio. Del resto, l’argomento della Lega è sempre lo stesso: Se Roma ha poteri, allora anche noi…
Peccato che dietro questa retorica dell’autonomia a tutti i costi ci sia il nulla cosmico delle risorse. Roma stessa, a detta del suo sindaco Roberto Gualtieri, per gestire decentemente le 11 materie che dovrebbero esserle trasferite – dalla Regione Lazio previo accordo con lo Stato – avrebbe bisogno di un miliardo di euro. Oggi ne incassa appena 110 milioni più 256 milioni per la mobilità. E quindi: con quali soldi si immagina Milano Capitale 2.0 o Venezia Serenissima? Ce lo spieghino i teorici dell’autonomia “fatta in casa”, che si dimenticano che il PNRR impone all’Italia di superare i trasferimenti statali diretti, puntando su compartecipazioni a tributi.
Tradotto: le Regioni dovrebbero autofinanziarsi. E qui la festa finisce prima di essere cominciata. Perché se la Lombardia gode di un’autonomia finanziaria del 91,5% – dato diffuso recentemente dalla Corte dei conti – la Puglia, ad esempio, si ferma al 70,2%. Un’Italia a doppia (o tripla) velocità, dove alcune Regioni possono permettersi il lusso dell’autogoverno e altre rimangono appese ai fondi statali. Come pensiamo di tenere insieme un Paese in queste condizioni? Chi paga le disparità? E soprattutto: dov’è finita la coerenza?
E allora? Allora dietro la narrazione dell’autonomia si nasconde un’urgenza tutta elettorale. Calderoli deve sventolare qualcosa al prossimo raduno di Pontida. La Lega ha bisogno di portare a casa un trofeo da esibire ai suoi militanti, ora che il Doge è sotto sfratto e dovrà lasciare Palazzo Balbi (magari per fare un giorno il sindaco di Venezia, si sussurra). Non importa se la Consulta ha bocciato la legge leghista, non importa se manca una visione, una sostenibilità, un disegno complessivo. L’importante è far vedere che “qualcosa si muove”.
E Meloni, romana della Garbatella che ha fatto della romanità un tratto distintivo – come ricorda Claudio Cerasa – sa bene come funziona il baratto del potere. Ha ottenuto il via libera per Roma Capitale, ora deve concedere qualcosa ai suoi alleati. Milano, Venezia, autonomia differenziata, premierato, separazione delle carriere: un menù di scambi reciproci, un mercatino delle riforme dove la posta non è mai il bene comune, ma l’equilibrio interno della maggioranza. Non un programma condiviso. Un patto.
Così si finisce per legiferare senza un progetto, governare senza un’idea, riformare senza una direzione. E Fratelli d’Italia, cresciuti alla scuola del centralismo nazionale, si ritrovano a guidare una Repubblica spezzettata, dove le Regioni non avrebbero più senso e ogni Regione è un’isola e ogni città una piccola capitale. Milano, Venezia, Roma… e poi? Napoli, Palermo, Bari, Genova. Perché no? Facciamole tutte capitali. Così, almeno, il caos sarà finalmente federalista e democratico.