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L’Ucraina e quei crimini dimenticati

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L’ultima notte da incubo vissuta da Kiev – colpita da oltre trecento droni e otto missili da crociera, con almeno trentuno vittime accertate, fra cui cinque bambini – in un attacco privo di obiettivi militari, volto solo a dimostrare che il Cremlino non ha nulla da negoziare, che può colpire quando vuole e quante volte vuole. Questo ennesimo showcase killing, come lo ha definito Zelenskyj, impone una riflessione su come si è andato ridisegnando l’atlante emotivo dell’Occidente. Perché se è vero che l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia nel 2022 aveva proiettato Putin nel ruolo di paria internazionale, sotto sanzioni, condanne morali e penali, dal 7 ottobre 2023 tutto è cambiato.

L’esplosione del conflitto israelo-palestinese a Gaza ha modificato la gerarchia delle indignazioni globali: i media, i movimenti, le piazze si sono ricompattati intorno alla questione palestinese, lasciando in secondo piano, se non del tutto in ombra, l’aggressione russa. Al punto che oggi Putin può rispondere all’ultimatum di Donald Trump – che aveva fissato scadenze e minacciato nuove sanzioni entro l’8 agosto – con un bombardamento che è soprattutto una risposta brutale a quell’ultimatum, un modo per «mostrare i muscoli». E può dire, allo stesso tempo, di essere «pronto a compromessi», ma che «non cambiano le condizioni per la pace», occupando entrambi i registri: quello della forza che impone i fatti, e quello del diplomatico che invoca soluzioni «realistiche», o meglio piegate al fatto compiuto.

Il dramma di Kiev che non smuove più le coscienze

Ma perché l’Ucraina, colpita giorno e notte, non scuote le coscienze occidentali? Per malafede? Per saturazione? Perché l’essere umano «davanti al dolore degli altri», per citare un celebre saggio di Susan Sontag, non riesce a sopportare troppo orrore contemporaneamente e dunque sceglie su quale puntare la propria empatia? Basta guardarsi intorno. Non ci sono le bandiere giallo-blu ai concerti, nei raduni, sui palchi teatrali, sui red carpet, ai cortei studenteschi e nei festival internazionali. Nessuno grida: «Ucraina libera!». Nessuno – e per fortuna, vorrei dire – se la prende coi turisti russi in vacanza in Italia e nel resto del mondo. Come mai un popolo ancora sotto le bombe è assente dalle immagini simboliche che orientano la percezione morale dell’Occidente? Non vale nemmeno la pena qui ricordare le differenti origini e cause delle due guerre.

Né comparare il numero dei morti, la durata e l’efferatezza dei crimini. Si tratta piuttosto di analizzare la diversa ricezione che questi eventi drammatici producono nella coscienza collettiva. Si parla, ad esempio, con insistenza crescente di genocidio a Gaza, e se ne discute a livello giuridico e politico, come è giusto che sia in presenza di decine di migliaia di civili uccisi. Mentre non se ne parla affatto per la Russia, nonostante in Ucraina si sia compiuto – e si continui a compiere – un crimine che rientra a pieno titolo nella definizione giuridica di genocidio, così come stabilito dalla Convenzione del 1948. Oltre ventimila bambini ucraini, infatti, sono stati deportati in Russia: strappati alle famiglie, trasferiti in territori lontani, rieducati secondo i dettami ideologici dell’aggressore, cambiati di nome, di lingua, di identità.

E il «trasferimento forzato di bambini da un gruppo a un altro gruppo» è una delle cinque fattispecie codificate per il reato di genocidio. Non è opinabile. È scritto nella legge internazionale. E nell’aprile 2023 il Consiglio d’Europa lo ha riconosciuto formalmente e all’unanimità nel caso specifico dei bambini ucraini. Con questa accusa su Putin è stato emesso un mandato di arresto dalla Corte penale internazionale: una decisione giuridica basata su fatti provati. E tuttavia, su un tale crimine, che riguarda l’identità stessa di un popolo, che mira all’annientamento per assimilazione forzata, è sceso il silenzio. Come se la realtà avesse perso la forza di imporsi contro l’inquadratura prevalente.

Gaza ha fatto dimenticare cosa ci accade vicino

Così come è sceso quasi subito il silenzio sugli eccidi di Mariupol, la città martire, assediata e rasa al suolo nella primavera del 2022. Per settimane le testimonianze si sono accumulate: resoconti di esecuzioni sommarie, fosse comuni, deportazioni, ospedali pediatrici bombardati, interi quartieri cancellati con la popolazione intrappolata al loro interno. Poi il fronte di guerra si è spostato in Medio Oriente, e con esso l’attenzione dell’opinione pubblica. Mariupol è diventata oggetto di riscrittura: nei social, nei talk show, persino in parte della stampa occidentale, si è insinuato il dubbio, infine è prevalsa la rimozione.

Nel frattempo la guerra a Gaza ha fatto dimenticare o ignorare ciò che continua a succedere accanto a noi. E da questo slittamento dell’asse morale da Kiev a Gaza Putin continua a trarre vantaggio, capitalizzando la distrazione di massa: lo ha fatto in Africa, dove si accredita come difensore dell’autonomia postcoloniale, in Asia, dove propone un ordine multipolare di facciata, in Europa, dove trova sponde nei partiti sovranisti e negli affaristi filorussi. Ma soprattutto lo ha fatto negli spazi lasciati aperti da una narrazione monodirezionale e monopolizzante.

Sia chiaro, non si vuole fare qui dell’odioso «benaltrismo». La questione non è sminuire una tragedia evocandone un’altra. Nessuno può negare il disastro umanitario di Gaza e i crimini di guerra che stanno avvenendo. La questione è denunciare il rischio – ormai tangibile – che l’indignazione diventi selettiva, e che in questa selettività si annidi una nuova forma di ingiustizia: quella che attribuisce piena dignità alle vittime di un conflitto e ne sottrae ad altre. Difendere la centralità della causa palestinese non impone di tacere sull’odiosa aggressione russa contro gli ucraini, così come condannare l’invasione russa non significa legittimare ogni azione israeliana. La sfida a cui siamo chiamati oggi consiste proprio in questo: nella capacità di tenere insieme più verità senza attenuarne nessuna. Il vero benaltrismo è fingere che il male stia da una sola parte del mondo.

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