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Gaza, se il radicalismo diventa contagio

Le dichiarazioni di Macron hanno dato il via al riconoscimento in massa della Palestina. Israele risponde criticando il pericolo per la sua sicurezza ma il radicalismo orienta entrambe le fazioni

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A volte un editoriale si scrive da solo, quando alle notizie dai fronti di guerra si sommano quelle che vengono dal versante politico e diplomatico, e tracimano perfino nella cronaca. Sul piano diplomatico, il passo avanti più significativo non è la posizione francese, che annuncia il riconoscimento dello Stato palestinese, seguita da un’altra quindicina di stati e da un analogo annuncio del Regno Unito, che ha spostato a settembre la decisione. Il premier Keir Starmer ha detto che è ormai venuto il momento di prenderla, affinché non si affievolisca definitivamente la soluzione «due popoli, due Stati» a cui la comunità internazionale dichiara di lavorare, anche se di quel lavoro si sono perse da troppo tempo le tracce.

È politicamente molto più significativa la dichiarazione di New York della Lega Araba, che per la prima volta in modo netto ed esplicito ha condannato, insieme all’Ue e ad altri diciassette Stati, l’eccidio del 7 ottobre, ha inoltre invitato Hamas a liberare gli ostaggi, deporre le armi, porre fine al suo governo sulla Striscia e, dall’altro lato, chiesto a Israele di cessare le ostilità, riconoscere il diritto al ritorno dei rifugiati e tornare a prevedere l’ipotesi di uno Stato palestinese a ovest del fiume Giordano.

Poeti e mistici sanno che una rosa è una rosa è una rosa; così anche una dichiarazione è una dichiarazione è una dichiarazione. Ma resta il fatto che essa attesta come persino Paesi tradizionalmente ostili verso Israele, come il Qatar o la Turchia, si siano accorti che Hamas è un problema per la stabilizzazione dell’area. Lo è anche, dall’altra parte, il diritto al ritorno nei luoghi di Israele, che dal ’48, cioè sin dai tempi di Ben Gurion, è considerato una sorta di grimaldello per scardinare la sicurezza dello Stato d’Israele. La dichiarazione non è insomma l’uovo di Colombo, ma non è nemmeno, per una volta, una mezza frittata diplomatica.

Dove, però, eravamo rimasti? Nel settembre del ’22, dunque solo un anno prima del 7 ottobre, l’allora premier israeliano Yair Lapid – premier per pochissime settimane – aveva dichiarato, nel corso dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, di essere favorevole alla soluzione a due Stati del conflitto israelo-palestinese. Era la prima volta di un primo ministro d’Israele in carica. Poi ci sono state, in rapida successione le sue dimissioni, nuove elezioni, il ritorno di Netanyahu e, in USA, il ritorno di Trump.

Oggi la notizia è che Yair Lapid, a capo dell’opposizione, scrive su Facebook di aver posto ai suoi amici europei, a seguito dell’ondata di riconoscimenti fioccati dopo il passo di Macron, la seguente domanda: «Se lo Stato palestinese che sostengono è destinato a diventare un altro Stato fallito, terrorista e sanguinario – contro i suoi stessi cittadini e contro gli ebrei – allora sono ancora disposti a sostenerlo? Perché è bello volere uno Stato palestinese illuminato, prospero e democratico, dove nei caffè di Ramallah si discute di Sartre e Camus, ma tutti noi sappiamo che non è proprio ciò che accadrà».

Fin dove ci si può spingere per la sicurezza d’Israele?

A questa domanda Lapid dice che i suoi amici non ci hanno pensato. Io, però, ci ho pensato e ho a mia volta da fare una domanda a Lapid, la seguente: fin dove può giungere la sacrosanta esigenza di sicurezza di Israele? Che cosa in suo nome si può giustificare? Non tutto, credo. Non soprattutto, di decidere di cosa si discuta nei caffè del futuro Stato palestinese, e nemmeno della qualità democratica della forma di governo. Se il criterio fosse questo, quanti Stati oggi rappresentati all’ONU perderebbero ogni legittimità? Purtroppo (in alcuni casi per fortuna) la linea che separa la politica internazionale dalla politica interna va difesa, se davvero si vuole una convivenza pacifica fra Stati e popoli diversi.

In nome della sicurezza Israele ha tutto il diritto di preoccuparsi della sicurezza dei propri confini, preoccuparsi che non piovano più razzi su Tel Aviv o su Ashkelon o che non si costruisca l’atomica a Teheran, ma in nome della sicurezza non può chiedere né il trasferimento della Sorbona a Ramallah, né la Riviera di Trump a Gaza. Il fatto che a farlo sia proprio Lapid, il primo e ultimo, da parte israeliana, ad aver parlato di due Stati in sede Onu, la dice lunga sulla strada che è ancora da fare. La dice lunga anche sulla radicalizzazione della scena politica a Gerusalemme, se è vero che la Knesset ha votato a maggioranza, lo scorso anno, una risoluzione che si oppone fermamente al pericolo esistenziale rappresentato dalla creazione di uno Stato palestinese in Cisgiordania.

Hamas, diceva la risoluzione, ne farebbe un sol boccone. Sia pure. Ma si può allora appoggiare la dichiarazione di New York e tornare a considerare che, senza Hamas, quella sia la sola soluzione praticabile che non consista nella vittoria senza limiti di una parte sull’altra? È una domanda per Lapid e per gli amici di Israele. Quanto però alla radicalizzazione dell’opinione pubblica (e alle pagine Facebook), è il caso infine di guardare pure in casa nostra. Francesca Albanese, l’inviato speciale dell’ONU per Gaza, ha condiviso sulla sua pagina un post in cui si commenta il caso dell’aggressione di un turista francese che indossava la kippah (ed era fermo in autogrill con il figlio di sei anni) parlando sobriamente di «dispositivo del sionista bugiardo».

Altro che aggressione: quell’uomo avrebbe avuto il coraggio di gridare «Viva Israele» e allora sì che meritava l’epiteto di assassino. Che oltre all’epiteto siano arrivati calci e pugni è un particolare su cui l’autrice non si sofferma, mentre indaga la Digos. Non c’è molto da aggiungere, se non che coloro che, da ambo le parti, vogliono una sola terra e un solo popolo dal fiume al mare, vogliono anche decidere chi possa o no fermarsi per un caffè, in autogrill.

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