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Velasco e il volley: è sempre generazione di fenomeni

Coach Velasco porta la Nazionale femminile di Volley a vincere la ventinovesima partita consecutiva

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C’è sempre Julio Velasco. C’era lui come “content creator” si direbbe oggi, come allenatore e come guru si diceva allora, dietro quella “Generazione di Fenomeni” (copyright by Jacopo Volpi, che dette alla squadra l’etichetta di un titolo degli Stadio) che dominò la pallavolo mondiale negli Anni Novanta, tanto che uno di loro, Lorenzo Bernardi, fu eletto giocatore del secolo in comproprietà con Carch Kiraly, l’americano capace di vincere l’oro da giocatore di pallavolo e di beach volley. Loro tutti, gli azzurri di quegli Anni Novanta, furono “la squadra del secolo”: non c’era mondiale per nessun altro, anche quando Velasco lasciò la panchina. E ora c’è di nuovo Velasco alla guida di questa “Generazione di fenomeni” (non c’è una declinazione al femminile della parola, ma c’è nella realtà “fattuale”) che è l’Italia femminile della pallavolo.

La Nazionale dell’oro a Parigi

Sì, proprio quella Nazionale lì che poco meno di un anno fa, a Parigi olimpica, regalò all’Italia una delle sue più belle medaglie d’oro olimpiche, sia dell’edizione di Parigi che, probabilmente, di tutta la storia dei Giochi. Una storia nella quale le donne stanno prendendo una sempre maggior parte e gloria, anche in conseguenza del fatto, tutt’altro che trascurabile, che lo sport è una strada giusta verso la parità dei generi, non solo di numeri e di facciata. La pallavolo, poi, non essendo sport di contatto come si dice, ha perfino quel tocco di femminilità in più, retaggio del patriarcato, pure se non è detto che il contatto e contrasto fisico richiedano una ferocia agonistica maggiore.

Che anzi una schiacciata di una di loro o un maligno pallonetto possono perfino essere praticamente o idealmente più feroci di un tackle o di un placcaggio. L’altro giorno questa bella Italia ha vinto la World League, che è una competizione per nazioni di quelle che mette a confronto “la meglio gioventù” del mondo intero o quasi (s’aspetta l’Africa, ma questa è una faccenda che ha a che fare soprattutto con le opportunità di organizzazione e di impiantistica) e che fanno parte di quegli sport che, a differenza del calcio, non hanno campionati nazionali particolarmente attrattivi se non a macchia di leopardo, in quelle città o luoghi dove siano “squadre di campanile”. Sono gli sport nei quali la Nazionale è il traino e forse il tutto, e la pallavolo, pure essendo una disciplina largamente praticata (forse la più praticata anche a livello scolastico, per quel poco che la scuola italiana “pratica” di sport.

L’Italia al femminile

Questa estate è molto di “Italia al femminile” negli sport di squadra: è recentissimo l’“amore” sbocciato per le ragazze del calcio, come ha riconosciuto il Presidente Mattarella, che sa di sport e di umore nazionale, volendole al Quirinale alla fine del loro Europeo concluso da una sconfitta di quelle che tali sono soltanto per gli almanacchi: un gol preso al recupero e poi un rigore dubbio fanno statistica ma non verità sportiva, ed è recente il bronzo conquistato dalle donne del basket al campionato d’Europa, sensazioni e traguardo che erano del secolo scorso. E ora c’è da celebrare questa “generazione di fenomeni” che s’avvia al mondiale di fine agosto in Thailandia e che con la vittoria di ieri l’altro contro il Brasile, nella poule finale giocata in Polonia dopo i gironi che erano stati sparpagliati per il mondo, ha raggiunto una serie di 29 successi consecutivi, cose da Boston Celtics, All Blacks o da “individui” come Martina Navratilova o Edwin Moses. Cose da fenomeni, per l’appunto.

Questa Nazionale di Antropova e Sylla, di Egonu e Danesi, di Fahr e Nervini, di De Gennaro e Orro, di Cambi e Giovannini, di Degradi (infortunata l’altro ieri: auguri, anche se pare dovrà rinunciare al mondiale come le capitò già prima delle Olimpiadi, un accanimento della malasorte), questa Nazionale alla quale prima parteciparono anche altre che questa volta hanno detto un no («Un no è sempre un no, per me la porta è quasi chiusa» commentò Velasco, «perché la Nazionale non è un club», una versione apicale del «questa casa non è un albergo…») ha anche qualcosa di altamente simbolico e da eleggere a modello: è un’Italia che ha aperto le porte, come fa sempre lo sport, alla ricchezza della multietnicità che ormai è, fortunatamente, il “nostro pane quotidiano”, anche se ce n’è ancora, e per pochi che siano sono sempre troppi, ai quali questo pane va sempre di traverso. E, giacché avete fatto 29, fate 30, 31 e così via… E fate anche gli scongiuri, se siete superstiziose, care fenomeni…

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