La strategia dei dazi di Donald Trump è tattica tipica di un impero, ma resta da vedere se l’appartenza a questo impero è conveniente anche per l’Europa
Se Trump pensa che, mediante i dazi, egli sarà in grado di realizzare in un colpo solo i tre obiettivi ripetutamente enunciati della sua presidenza – favorire la reindustrializzazione degli Stati Uniti, ridurre il deficit della bilancia dei pagamenti e riequilibrare il bilancio federale – certamente si illude. Come ha scritto giustamente ieri Veronica De Romanis su La Stampa, i tre obiettivi sono fra loro incompatibili: se, ad esempio, i dazi procurano un gettito consistente, vuol dire che non si riducono le importazioni e quindi non si riduce il deficit della bilancia commerciale; se invece l’imposizione dei dazi favorirà la reindustrializzazione, vi sarà una flessione delle importazioni ma non si materializzerà il gettito fiscale previsto.
Dobbiamo concluderne che la politica di Trump è velleitaria? Non direi. La mia opinione è che, sotto l’ombrello delle enunciazioni di carattere generale, l’obiettivo della politica daziaria di Trump è più limitato. Sostanzialmente egli punta a ricavare un gettito fiscale senza gravare sui suoi concittadini. In tal modo egli conserverebbe sostanzialmente intatto il potere di acquisto degli americani facendone finanziare una parte dai singoli esportatori o dai paesi cui gli esportatori appartengono.
In questo modo avremmo il risultato paradossale che il reddito e i consumi del paese più ricco al mondo sono finanziati da paesi che sono certamente meno ricchi di lui. Non sarebbe una novità: già lo faceva a suo tempo l’impero britannico. Gli imperi sono fatti così. Si tratta però di vedere se l’appartenenza a un impero assicuri altri benefici che giustifichino dei trasferimenti di ricchezza verso la capitale. Con l’America di Trump che sia così, almeno per l’Europa, è tutto da vedere.
Il rischio per i consumatori americani
Questo abile colpo di mano – perché di questo si tratta – può riuscire solo se i dazi non sono troppo elevati e se c’è una connivenza, più o meno consapevole, da parte dei paesi esportatori. Se i dazi fossero molto elevati: il 30 o il 50% o più, non potrebbe non esservi un riflesso sui prezzi al consumo e quindi almeno in parte l’onere fiscale graverebbe sui consumatori americani i quali sarebbero costretti a ridurre i consumi. Questo è ciò che Trump deve evitare se vuole sopravvivere al prossimo turno elettorale del 2026. Dunque dopo avere minacciato dazi elevati, Trump punta a chiudere accordi per dazi più modesti – sufficientemente bassi da ottenere che a pagarli siano più o meno integralmente gli esportatori.
Con la Gran Bretagna e con il Giappone l’accordo è stato chiuso al 10%. Con l’Europa ora si parla del 15%, forse perché l’Europa appare ed è più debole. Che succede con un dazio al 10-15%? Succede che molti esportatori di prodotti (come i prodotti di lusso) con alti margini di profitto, preferiranno conservare i mercati americani accettando minori ricavi netti: si accolleranno cioè il pagamento delle tariffe doganali. Quanto agli esportatori di beni “normali” vi sarà la tentazione nei paesi di appartenenza di accollarsi – cioè di accollare a tutta la collettività nazionale – l’onere dei dazi, con la giustificazione di evitare le conseguenze sull’attività produttiva nazionale di una flessione delle esportazioni.
Qualche settimana fa, esponenti della maggioranza hanno ipotizzato di utilizzare le risorse del Pnrr che dovrebbe servire a rilanciare la crescita stagnante, per coprire l’onere dei dazi. Hanno cioè immaginato una specie di piano Marshall al contrario, come se gli Stati Uniti fossero un paese povero da aiutare. Ci sarebbe un’alternativa? Certo. L’alternativa sarebbe di imporre dazi effettivi altrettanto forti sulle importazioni dagli Stati Uniti così da compensare i maggiori oneri daziari negli Stati Uniti con i maggiori incassi daziari in Europa. Sarebbe una risposta dura che richiederebbe, come è stato scritto altre volte, una schiena dritta.
Sarebbe il solo linguaggio che Trump sembra comprendere: dovunque egli incontra una resistenza forte: dalla Russia di Putin sull’Ucraina alla Cina sui dazi, Trump mostra la sua sostanziale debolezza dietro il volto truce e accetta una base più equa di negoziato. L’impressione è che l’Europa non sia capace di usare il linguaggio duro che induce Trump alla moderazione. Probabilmente essa è minata al suo interno dai molti governi trumpiani che predicano la prudenza, ma che in sostanza fanno gli interessi del presidente americano contro gli interessi dei loro (dei nostri) concittadini.