Mentre alcune tra le maggiori testate internazionali lanciano l’allarme sulla carestia a Gaza il ministro israeliano Amichai Eliyahu invoca la distruzione della Striscia e la migrazione di massa dei palestinesi
Anche le maggiori testate giornalistiche internazionali denunciano le privazioni alimentari in corso a Gaza. Agence France-Presse, Associated Press, Reuters e la BBC hanno rivolto ieri un appello a Israele affinché permetta un maggior afflusso di aiuti alimentari nella Striscia e consenta l’uscita dei giornalisti delle testate presenti sul territorio. «Siamo profondamente preoccupati per i nostri giornalisti a Gaza, che sono sempre meno in grado di sfamare sé stessi e le loro famiglie», hanno dichiarato i giornali, sottolineando come i loro inviati siano prossimi a morire di fame.
Nella dichiarazione i firmatari sostengono che «i giornalisti sopportano molte privazioni e difficoltà nelle zone di guerra» e si dicono, in tal senso, «profondamente allarmati dal fatto che la minaccia della fame sia ora una di queste». Da quando le autorità israeliane hanno chiuso la Striscia ai vari inviati internazionali che vi operavano, molti gruppi mediatici in tutto il mondo hanno cominciato a dipendere direttamente dalla copertura del conflitto fornita dai giornalisti palestinesi, i quali ad oggi sono una delle poche fonti ancora presenti sul territorio.
Senza le informazioni fornite dagli inviati locali, gran parte dei media esteri non avrebbero modo di raccogliere o verificare le notizie sul territorio. La preoccupazione delle testate giornalistiche internazionali, al netto di ciò, è ben comprensibile anche al di là delle ovvie implicazioni umanitarie. Israele, dal canto suo, continua a negare di avere colpe nell’attuale crisi alimentare a Gaza. Nonostante le continue denunce arrivate da più parti del globo, Tel Aviv continua a sostenere di star facendo affluire un numero accettabile di derrate alimentari e di star conducendo al meglio delle sue capacità le operazioni di assistenza alla popolazione.
Eliyahu torna all’attacco con nuove dichiarazioni
Ma tutte queste dichiarazioni e affermazioni perdono di credibilità a fronte di uscite sempre più aggressive da parte di alcuni membri del governo. L’ultimo in ordine di tempo a rilasciare dichiarazioni difficili da giustificare è stato Amichai Eliyahu, ministro per gli affari e il patrimonio di Gerusalemme, il quale ha dichiarato ieri che «il governo spinge affinché Gaza venga annientata». «Grazie a Dio, stiamo estirpando questo male. Stiamo facendo pressioni su questa popolazione che è stata educata sul Mein Kampf», ha poi continuato Eliyahu, prima di aggiungere che «non c’è fame a Gaza».
Dichiarazioni assurde e pericolose che provengono da una figura controversa tanto in patria quanto all’estero. Eliyahu, infatti, già in passato si era abbandonato a deliranti dichiarazioni contro i palestinesi. «Dovrebbero morire di fame», ebbe a dire il 7 maggio parlando della popolazione gazawi, prima di chiedere di bombardare le riserve alimentari della Striscia così da colpire ancor più duramente i residenti. La sua soluzione per i civili? «Se ci sono civili che temono per la loro vita, che seguano il piano di emigrazione», suggerisce Eliyahu.
Affermazioni forse profetiche alla luce dell’attuale drammatica situazione nella Striscia. Nonostante le sparate, Eliyahu gode però di un notevole peso politico e non è, come invece farebbero supporre le sue dichiarazioni, un attore politico irrilevante. La sua linea, del resto, non è poi tanto diversa da quella degli altri “falchi” dell’attuale governo, tra i quali brillano per importanza il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir, compagno di partito di Eliyahu.
Il meeting sardo di Witkoff
Le uscite di personalità di questo tipo danneggiano l’immagine del Paese nel mondo e rendono meno credibili tutti i tentativi fatti da Israele per arginare il dilagare dei sentimenti anti-sionisti tra le nazioni “amiche” del globo. E sul lungo periodo, il diffondersi di questa immagine sempre più negativa di Tel Aviv potrebbe avere ripercussioni anche sulla capacità dei cittadini del Paese di spostarsi all’estero, come testimoniato già in questi giorni da alcuni attacchi contro cittadini israeliani in varie nazioni europee.
Forse, questo stato di cose potrebbe pesare anche sul rapporto con gli Stati Uniti, alle prese con il difficile compito di mediare una soluzione diplomatica al conflitto, la quale sembra tuttavia allontanarsi dopo il fallimento – ieri – dei colloqui in Sardegna tra l’inviato speciale di Trump per il Medio Oriente, Steve Witkoff, il primo ministro del Qatar Mohammed bin Abdulrahman Al-Thani e il ministro israeliano per gli Affari Strategici Ron Dermer.
Al centro, evidentemente, il difficile tentativo di trovare una tregua che fermi il conflitto sul campo e permetta di riprendere trattative più serie e più a lungo termine con Hamas. Witkoff tuttavia ha denunciato la resistenza negoziale del gruppo radicale palestinese, mentre entrambe le parti sono rimaste ferme sulle proprie richieste: per Hamas il ritiro completo d’Israele dalla Striscia; per Tel Aviv l’espulsione definitiva dei militanti dai territori palestinesi.
Trovare una quadra tra queste due posizioni, al netto dei continui problemi interni d’Israele e della crisi alimentare a Gaza, si è rivelato – almeno per il momento – impossibile. A Gaza così, anche domani, la guerra continua e con lei la fame e la distruzione.