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Dentro la mente contorta di Hitler: la battaglia di Gitta Sereny

La giornalista Gitta Sereny

Letture in estate, non solo gialli. La giornalista racconta Albert Speer, l’uomo più vicino al Führer. Un’intervista 30 dopo Norimberga e che Adelphi ora ripubblica

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Parlare di letture in estate vuol dire, sovente, rifugiarsi nei gialli, nei sedicenti best seller, in una delle millanta novità che affollano i banconi delle librerie per poi svanire, mestamente, dopo poche settimane, se non giorni. Viva, allora, chi scompagina le carte e ci propone di recuperare testi che, seppur usciti trent’anni fa, conservano una forza e una freschezza indubitabili.

È così per “Albert Speer. La sua battaglia per la verità” di Gitta Sereny che Adelphi (editore senza rivali nel riproporre autori e titoli, in modo che appaiano come nuovi, anche se non lo sono) rimanda in libreria (1.030 pagine, 39 euro) nella traduzione di Valeria Gattei.

Gitta Sereny, storica giornalista britannica di origini ungheresi, è scomparsa nel 2012. Il suo monumentale volume è del 1995, in Italia lo pubblicò Rizzoli con titolo leggermente diverso: “In lotta con la verità. La vita e i segreti di Albert Speer, amico e architetto di Hitler”.

Sono passati trent’anni, non la necessità di fare i conti con chi trascinò l’Europa e il mondo nella barbarica follia della seconda guerra mondiale. E un testo come questo – frutto di un lavoro immenso di ricerca, che Gitta Sereny ha condotto dal 1977 al 1995 e di un confronto serrato con lo stesso Speer – è imprescindibile.

Siamo di fronte ad un capolavoro di biografia intellettuale. Che scandaglia la guerra mondiale e il nazionalsocialismo, in particolare gli aspetti operativi della guerra, visto che Speer era a capo del materiale bellico verso la fine del conflitto. Ma è anche un testo che ci avvicina alla mente contorta di Hitler, al quale Speer era vicino come nessun altro.

Adelphi (1.030 pagine, 39 euro) in libreria con la traduzione di Valeria Gattei


Gitta Sereny scrisse di aver passato gran parte della sua vita a studiare l’impotenza morale che oppresse la Germania nazista: è durato dieci anni il lavoro di redazione del libro sull’architetto e ministro per gli armamenti della Germania, condannato a Norimberga a vent’anni di reclusione nel carcere di Spandau.

Un testo notevole che si sviluppa su più livelli: è un commento critico ai due libri di memorie scritti dallo stesso Speer, il più celebre pubblicato con il titolo di “Memorie del Terzo Reich”, ma assume a tratti i contorni della saga familiare.

È così per la numerosa famiglia di Speer (nato nel 1905 a Mannheim, morirà a Londra nel 1981), per le sue segretarie tra le quali spicca Annemarie Kempf. L’autrice la definisce “donna di impeccabile integrità”: iniziò a lavorare con Speer quando aveva diciotto anni ed era al suo fianco quando morì.

Gitta Sereny non perde mai, lungo le pagine, l’obiettivo della sua certosina ricerca: risolvere l’enigma di Speer, le sue scappatoie, la sua angoscia personale, la sua ossessione per lo sterminio degli ebrei. “Il fine principale di questo libro — scrive — è stato imparare a comprendere Speer”.

Quando era seduta nelle tribune dell’aula di Norimberga dove era in corso il processo contro gli “uomini di Hitler”, Gitta Sereny era rimasta colpita proprio dalla compostezza esemplare di Albert Speer, membro della cerchia più stretta del Führer.

Trent’anni più tardi, dopo aver letto “In quelle tenebre” – il libro-intervista che lei aveva dedicato al comandante di Treblinka Franz Stangl, pubblicato in Italia da Adelphi nel 1975 –, Speer decise di contattare l’autrice e di invitarla nella sua casa a Heidelberg per ripercorrere con lei la sua storia.

All’epoca, lui aveva scontato la detenzione nel carcere di Spandau, dove aveva scritto clandestinamente migliaia di pagine di riflessioni e memorie e aveva avviato, con un pastore calvinista ex membro della resistenza francese, l’ostinato e maniacale tentativo di fare i conti con il proprio passato.

Lei veniva da anni di indagini sugli orrori della Germania nazista e, incontrandolo, percepì uno stacco tra il tono altezzoso, “autoritatio e arrogante” dei mea culpa che uscivano “troppo prontamente” dalle labbra dello Speer pubblico, e quell’uomo timido, dotato di humour e fascino, abitato da una profonda tristezza, che le parlava “con una strana inflessione interrogativa nella voce”.

Costruisce dunque una memorabile inchiesta basata sulle lunghe conversazioni che per molti anni intrattenne con lui, e spingendosi tanto a fondo nello scandaglio del suo conflitto interiore da determinare una vicinanza che le costò non poche critiche.

“Ero ineluttabilmente contaminato moralmente; per paura di scoprire qualcosa che avrebbe potuto farmi cambiare rotta, avevo chiuso gli occhi” dice ad un certo punto Speer.

Non era estremista né fanatico, durante la guerra il suo Ministero utilizzò persino ebrei o persone ricercate. Speer è un amministratore, un organizzatore. Utilizza tutti i suoi mezzi, il suo talento, le sue capacità manageriali per rispondere ai bisogni della Germania in guerra… giungendo anche ad utilizzare prigionieri di guerra, persone internate nei campi di concentramento.

Ha bisogno di manodopera; non gli interessa chi gliela procuri e a che prezzo. Erano le SS a reclutare anche donne e bambini…

Molti si sono convinti che anche Speer meritasse la condanna a morte, a Norimberga. È grazie al lavoro di ricerca, al rigore, al metodo di lavoro di Gitta Sereny – ogni affermazione, ogni frase di Speer è messa a confronto con altre fonti (d’archivio, testimoniali) senza una presa di posizione aprioristica – se oggi una figura così sfaccettata, così ingombrante, così ambigua, ci appare meglio leggibile, meglio giudicabile.

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