Il presidente stretto tra promesse non mantenute, scelte di governo e un movimento che fa della fedeltà la propria colonna vertebrale
Il consenso intorno a Donald Trump, presidente degli Stati Uniti, scricchiola. Ma, stavolta, non sono tanto i sondaggi nazionali a preoccupare l’inquilino della Casa Bianca, quanto piuttosto le avvisaglie che arrivano dal suo stesso campo. La base elettorale repubblicana, quella che nel 2024 gli ha consegnato un secondo mandato, comincia a manifestare dissenso.
Non si tratta di un’opposizione compatta o ideologica, ma di una crescente insofferenza per alcune scelte politiche che appaiono in aperto contrasto con le promesse elettorali della campagna «America first». A evidenziare il malumore sono diversi dossier: la nuova guerra nel Vicino e Medio Oriente, il rifinanziamento degli aiuti all’Ucraina, e il caso Epstein, tornato a galla dopo settimane di pressioni pubbliche e screzi interni nella cerchia trumpiana.
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La promessa più forte e identitaria della campagna del 2024 era stata chiara: «Con me, mai più guerre». Eppure, a neanche sei mesi compiuti dal suo insediamento, Trump ha ordinato un attacco militare contro obiettivi iraniani. L’intervento, definito «chirurgico» dalla Casa Bianca, ha suscitato però la reazione di figure centrali dell’ecosistema Maga, tra cui Steve Bannon e Marjorie Taylor Greene, che hanno bollato l’operazione come «il primo tradimento del mandato».
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C’è chi teme vecchi fantasmi, ossia l’idea che gli Stati Uniti finiscano invischiati in conflitti regionali senza un piano chiaro o una giustificazione diretta agli interessi nazionali. «Questa non è la guerra al terrorismo», ha detto Bannon nel suo podcast War Room, «questa è una guerra all’europea, e ci stanno trascinando dentro».
Non meno invisa è la scelta del presidente di sbloccare nuovi pacchetti di aiuti militari a favore di Kiev. La misura, approvata con l’argomento che i costi ricadranno sugli alleati Nato e non sul contribuente americano, ha scatenato la rabbia del fronte isolazionista. Marjorie Taylor Greene ha espresso pubblicamente dubbi sull’effettiva neutralità economica dell’operazione: «Senza ombra di dubbio, vengono usati i soldi dei contribuenti», ha dichiarato al New York Times. E le rassicurazioni di Trump («Noi forniremo i missili Patriot, ma li pagherà l’Europa al 100%») non bastano a calmare le acque.
Un’altra faglia interna si apre sull’accidentato terreno giudiziario. Il caso Jeffrey Epstein è tornato sotto i riflettori dopo che documenti desecretati hanno riacceso l’attenzione mediatica e politica sulla rete di protezioni intorno al miliardario accusato di traffico sessuale. Charlie Kirk, attivista conservatore e conduttore del podcast Turning Point Usa, ha cercato di placare le acque: «Mi fido dei miei amici nell’amministrazione», ha detto, invitando a non tornare sull’argomento. Ma è lo stesso Kirk ad ammettere, implicitamente, che il malcontento esiste e circola. «Abbiamo parlato tanto di Epstein. Ora la palla è nelle mani del dipartimento di Giustizia».
La tensione ha costretto Trump a intervenire in prima persona, chiamando uno per uno gli esponenti più influenti della sua area per difendere la linea ufficiale. Ma le fratture sono evidenti, e il rischio che il caso diventi una mina politica è reale. «Non è l’obiettivo che si contesta, ma l’esecuzione confusa e opaca», scrive Axios in un’analisi che conferma l’irritazione crescente anche tra i più fedeli.
Il dato più significativo, secondo gli analisti, è che non si tratta di un’emorragia trasversale: i Democratici sono naturalmente contrari, ma ciò che preoccupa la Casa Bianca è la disaffezione tra gli indipendenti (oltre il 60% di insoddisfazione) e tra i giovani repubblicani, sempre più critici verso una leadership percepita come incoerente rispetto al patto siglato nel 2024.
Un sondaggio Yougov-Economist diffuso questa settimana rivela che il 55% degli americani è insoddisfatto della presidenza Trump, ma è la lettura qualitativa dei dati a pesare: il 64% degli indipendenti boccia l’operato, e tra i giovani il dissenso raggiunge il 66%.
Nonostante il supporto ancora ampio tra i repubblicani (con solo il 6% di disapprovazione interna), il malumore crescente rappresenta un campanello d’allarme per il partito. «Non è solo questione di numeri,» osserva un analista del Washington Post, «ma di narrazione che si rompe». Il presidente, insomma, si trova stretto tra le promesse elettorali non mantenute e l’impatto politico delle sue scelte di governo. E per un movimento che ha fatto della fedeltà personale la propria colonna vertebrale, una crepa interna vale più di molti attacchi esterni.