23 Dicembre 2025

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23 Dic, 2025

Quei flop giudiziari, un regalo alla mafia


Che cosa accade quando l’azione repressiva dello Stato, invece di isolare la mafia, finisce per legittimarla agli occhi dei cittadini? È una domanda scomoda, che inquieta.

Ma è una domanda necessaria, soprattutto in alcune regioni del Sud. E più di tutte in Calabria. Qui, in questi giorni, si sono chiuse due delle più imponenti inchieste antimafia degli ultimi anni, Stige e Rinascita Scott. Due operazioni accompagnate da retate notturne, conferenze stampa solenni, annunci enfatici dei procuratori, grande amplificazione mediatica. E soprattutto manette a gogò.

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L’esito, però, racconta altro: più dei due terzi degli indagati sono stati assolti. Un dato che non può essere archiviato come fisiologia del processo. Rinascita Scott è il caso simbolo. Trecentotrentaquattro arresti, cinquecento indagati. Oggi, in appello, appena centocinquanta condanne.

Il giudizio di Cassazione è ancora pendente, ma il punto è già chiaro: quasi duecento persone hanno subito arresti, carcere, domiciliari, stigma pubblico, pur risultando innocenti. Un’onda lunga e indebita. Che resta anche quando la sentenza assolve. Sette anni fa l’operazione fu annunciata dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri come la più grande offensiva contro la mafia dai tempi del maxiprocesso.

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Per celebrarla si costruì persino un’aula bunker in tempi record. Ma il confronto storico è impietoso. Giovanni Falcone concluse la sua inchiesta con oltre il novanta per cento di condanne definitive. Qui, invece, si registra l’ennesimo flop giudiziario, soprattutto sul cosiddetto «terzo livello», evocato per anni e poi quasi interamente assolto. Uno schema simile emerge anche da Stige. Stesse modalità. Stessa enfasi iniziale.

Stesso ridimensionamento finale. Anche qui assoluzioni di massa. Anche qui una sproporzione evidente tra la promessa repressiva e il risultato giudiziario. Eppure di questo clamoroso rovesciamento nel dibattito pubblico non resta traccia. I giornali che aprirono con titoli cubitali sugli arresti non raccontano gli esiti. Le trasmissioni televisive che ospitarono i procuratori, benedicendo requisitorie e impianti accusatori, non dedicano una riga al fallimento processuale. Il silenzio è quasi totale.

Dietro questa amnesia, c’è una domanda rimossa: quale perdita di fiducia si produce tra i cittadini di una regione dove, da oltre vent’anni, le inchieste si susseguono con le stesse modalità? Quale reazione genera un’azione penale che colpisce forte, colpisce subito, e poi arretra clamorosamente? Non rischia forse di produrre l’effetto opposto a quello dichiarato? Non rischia di alimentare l’humus sociale in cui la criminalità trova nuove occasioni di radicamento, accreditandosi come meno nemica dello Stato? Questa riflessione si impone alla vigilia di un referendum che, in apparenza, non ha punti di contatto con i fatti che raccontiamo. E invece li tocca nel profondo.

Perché interroga il funzionamento della giustizia e il suo rapporto con il cittadino. I 334 arrestati di Rinascita Scott sono finiti in carcere o ai domiciliari grazie alla firma di un giudice per le indagini preliminari che ha avallato le richieste della procura. Senza esercitare quel filtro che la legge impone. Senza verificare l’esistenza di una concreta probabilità di condanna, presupposto oggi richiesto dalla riforma Cartabia per rinviare a giudizio un imputato.

Chi erano quei giudici? Che cosa non ha funzionato nel loro ruolo di garanzia?

Sono domande ineludibili. Soprattutto in Calabria, dove chi conosce la realtà giudiziaria sa bene quale sproporzione di potere, autorevolezza e visibilità esista tra le procure e gli uffici giudicanti del gip, spesso composti da magistrati di prima nomina. Magistrati giovani. Di passaggio. Consapevoli che la fuga dalla Calabria può dipendere anche dai buoni uffici di un procuratore influente nelle stanze del Csm.

È in questa microfisica del potere che la connessione ordinamentale e culturale tra giudice e pm rivela tutto il suo potenziale distorsivo e il suo impatto gravoso sul cittadino. Per questo il referendum è l’occasione di una risposta a quella domanda scomoda che il sistema mediatico-giudiziario rimuove: quale regalo fa alla mafia una giustizia che persegue il mito della terra bruciata?

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