22 Dicembre 2025

Direttore: Alessandro Barbano

21 Dic, 2025

Chiamatelo Welfare, dalla culla alla tomba con le coccole di Stato

Come e quando è nata la propensione della classe dirigente di una nazione a occuparsi del benessere dei propri cittadini


Si riflette negli ultimi tempi (soprattutto dopo l’esperienza del covid) su una pratica indispensabile per la costruzione sociale e sulla quale, già nel secolo scorso, la letteratura internazionale aveva condotto un vivace dibattito: una riflessione filosofica, sociologica e anche storica su come sia nato il Welfare State. “Il grado di civiltà di una comunità si misura in base a tanti indici: la cura dei bambini, la qualità della scuola, il livello di efficienza delle strutture sanitarie, la qualità e la sicurezza degli ambienti di lavoro, ma non va dimenticata la qualità della vita offerta agli anziani”, ha scritto la professoressa Luigina Mortari, nel saggio “La politica della cura”. Quando il benessere sociale divenne fonte di attenzione? Fu la rivoluzione industriale a mutare il volto della società moderna e, creando una maggiore fragilità sociale e nuovi livelli di povertà, determinò l’esigenza di interventi promossi dallo Stato. 

Le prime misure furono le assicurazioni sociali contro gli infortuni sul lavoro (tra il 1880 e il 1900).

Tuttavia, già alla fine del Settecento, a San Leucio, vicino Caserta, dove re Carlo di Borbone aveva acquistato i terreni e i boschi per creare una nuova residenza, nacque “il primo esperimento socialista mai attuato in Europa”. Ne fu artefice re Ferdinando IV trasferitosi a San Leucio, dopo la morte del figlio Carlo Tito, di appena 3 anni. Nelle sue passeggiate, il re fu attratto dall’attività delle piccole fabbriche di manifatture della seta. Immaginò allora di realizzare una piccola cittadina con alloggi, una scuola, un ospedale, aree agricole, appartamenti per gli insegnanti e una chiesa. Un re che inventò un programma per la Real Colonia di San Leucio, basato su criteri meritocratici. L’istruzione prevista era senza distinzione di genere, gli orari di lavoro inferiori alla media europea, l’assistenza sanitaria per anziani e infermi. Fu costituita la Cassa di carità in cui i lavoratori versavano parte dei propri guadagni, per garantire i servizi a tutta la comunità. Non possiamo sapere se questo progetto avrebbe avuto un futuro, perché poco dopo la Rivoluzione Francese spazzò via tutto. Un sistema di tutela dei lavoratori, più urgente dopo la Rivoluzione industriale, fu messo alla prova dalle diverse realtà economiche, dalle tensioni sociali e dalle iniziative politiche. 

I primi passi furono influenzati, in parte, dalla struttura giuridica del Codice Napoleonico, che aveva introdotto l’uguaglianza civile e la protezione della proprietà privata. Ma le prime vere forme di assistenza sociale s’affermarono in Germania. Non con un esponente progressista ma un conservatore: il cancelliere tedesco, Otto von Bismarck. Egli, fiutato il pericolo del movimento socialista, si affrettò a istituire il primo sistema moderno di assicurazione sociale obbligatoria, basata sul principio della solidarietà professionale. Ideò il criterio di “sostituzione del reddito” in caso di disoccupazione o inabilità, che garantiva, nelle difficoltà, una vita dignitosa, attraverso una rete di protezione sanitaria, rivolta anche agli anziani, finanziata con contributi obbligatori dei lavoratori e datori di lavoro. Dal 1883 al 1889 si affermò un sistema che ispirò anche gli altri Paesi europei, incoraggiati dalla stabilità sociale creatasi nell’ Impero tedesco. Per definire i nuovi compiti sociali dello Stato, si cominciò a parlare di “Wohlfahrtsstaat (Stato del benessere)”.

Nel Novecento un altro modello di stato sociale si affermò in Svezia, con la vittoria dei socialdemocratici: il “folkhemmet” (casa del popolo). L’accordo di Saltsjöbaden del 1938 stabilì un sistema di contrattazione collettiva tripartita fra lavoratori, datori di lavoro e Stato, con programmi sociali e politiche di pieno impiego. I sindacati potevano intervenire sulle condizioni di lavoro, sull’assistenza sanitaria e le pensioni. Né era sottovalutato il sistema dei servizi educativi, i sussidi di disoccupazione e le politiche familiari, garantiti per tutti. Il “folkhemmet” incarnava l’idea di una società garante della sicurezza e della competitività economica. Offriva, cioè, opportunità di lavoro per tutti i cittadini. 

Nel 1942, in Inghilterra con il “Report on Social Insurance and Allied Services” di Sir William Beveridge, l’economista e sociologo liberale pose le basi per un modello di Welfare-State completamente diverso e più moderno. Nel periodo della II guerra mondiale, Beveridge ipotizzò una serie di compensi per i sacrifici fatti dai cittadini durante il periodo bellico. Individuò “cinque giganti” che minacciavano la società: povertà, malattia, ignoranza, sporcizia e l’ozio. Propose, allora, un sistema di protezione sociale a partire dal principio della cittadinanza (non dell’occupazione) e dei contributi versati. Il fine era poter garantire protezione “dalla culla alla tomba”, a prescindere dalla condizione lavorativa. Al centro anche il diritto alla salute e, tra il 1945 e il 1948, nacque il National Health Service che potenziò il sistema di benefici sociali, offrendo assistenza sanitaria gratuita a tutti i cittadini inglesi. In molti considerano il piano Marshall, nato per aiutare la ricostruzione dell’Europa occidentale postbellica, un’applicazione americana del modello Beveridge. E in Italia? Lo sviluppo del Welfare avvenne in tre fasi, dopo un acceso confronto politico: il periodo liberale e fascista (1861-1945), la costruzione dello Stato sociale repubblicano (1945-1978), che corrisponde ai “30 anni gloriosi” post bellici in cui il Welfare s’affermò in tutta Europa, e -terza fase- l’età delle riforme (dal 1978) e delle crisi. Una parabola più o meno simile anche negli altri Paesi.

S’iniziò nel periodo post-unitario, con le prime leggi che introdussero l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni, per alcune categorie di lavoratori. E nel 1891, con l’enciclica Rerum Novarum di papa Leone XIII, nacque la Dottrina sociale della Chiesa. Il papa da un lato ammoniva la classe operaia troppo incline alle idee rivoluzionarie, dall’altro chiedeva ai padroni di mitigare gli atteggiamenti oppressivi nei confronti dei dipendenti. Lo Stato fu più titubante nelle iniziative sociali (solo nel 1919 fu introdotta l’assicurazione obbligatoria per invalidità e vecchiaia), e soltanto nel ventennio fascista fu emanato il testo unico delle leggi sanitarie (regio decreto 27 luglio 1934) che disciplinò gli organi e le competenze dei servizi sanitari statali. Poi, nel 1925 fu creato l’Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale e fu estesa la copertura assicurativa. Seguì la nascita dell’Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani nel 1926, sul modello previdenziale corporativo in uso. Anche in Italia era arrivata l’eco del modello Beveridge, ma fu osteggiata dal fascismo. Con il governo Badoglio, il 15 marzo del 1944, fu promulgato il regio decreto n.120 che istituì la “Commissione reale per la riforma della previdenza sociale”. Nel dopoguerra il modello inglese, pensato proprio per riscattare chi con la guerra era rimasto senza nulla, ispirò in Italia la progressiva estensione della copertura pensionistica a quelle categorie che fino a quel momento ne erano escluse (gli impiegati del settore privato, i coltivatori diretti, gli artigiani e i commercianti). Il meccanismo previdenziale si mise in moto, col supporto della Costituzione Italiana che con l’art. 38 stabilì che “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato”. E con l’art. 32 riconobbe la salute come “come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Successivamente, l’assistenza pensionistica fu estesa ai cittadini anziani meno abbienti e, nel corso del tempo, fu permesso a diverse categorie professionali di costituire forme previdenziali autonome.

E mentre lo Stato cominciava a rodare i nuovi sistemi, si affermavano imprenditori illuminati del cui operato oggi si parla in termini di “welfare aziendale”. Pensiamo ad Adriano Olivetti: la sua visione d’impresa non fu solo industriale. Fu sociale, culturale e umana. A Ivrea, egli istituì una serie di servizi e benefit, offrendo asili nido, biblioteche, servizi di ristorazione, impianti sportivi e ambulatori medici. La sua azienda favorì anche l’ingresso delle donne in fabbrica e introdusse misure di sostegno per la maternità e l’infanzia. Un modo di gestire l’azienda davvero originale in cui era prevista anche l’istruzione professionale degli operai. Alla base della politica aziendale, maturata da Olivetti durante l’esilio in Svizzera (1944-1945), c’era l’idea di un sistema di comunità, cresciuta all’interno di uno Stato socialista e federalista (la descrisse nel manifesto “L’ordine politico delle Comunità”). Il suo obiettivo era costituire anche un Consiglio di gestione, che coinvolgesse i dipendenti nelle scelte aziendali, per una forza lavoro serena, produttiva e promotrice spontanea del prodotto aziendale. L’Italia, che come altri Paesi europei, era passata dalla ricostruzione a un periodo di boom economico, vide fiorire anche altri modelli di gestione illuminata delle aziende. Come quella di Enrico Mattei che fece costruire un villaggio turistico, per i dipendenti dell’Eni, a Borca di Cadore. Legò così le strategie imprenditoriali a quelle sociali, in una prospettiva di superamento delle differenze fra le classi. Casi isolati potevano essere un esempio, ma soltanto le leggi dello Stato avrebbero potuto creare stabilità. Negli stessi anni, in Inghilterra, Richard Timuss fu autore di numerosi articoli e saggi sulla povertà e la mortalità infantile. Egli affermava che si poteva parlare di Welfare soltanto quando la maggior parte dei cittadini godeva degli stessi diritti, a prescindere dall’avere o no un rapporto di lavoro. Apprezzato dal laburista Richard Henry Tawney, Timuss fu, probabilmente, l’ispiratore di alcune sue riforme sociali (l’innalzamento dell’età scolastica, l’estensione dell’istruzione per i lavoratori, la fissazione del salario minimo). 

Il momento decisivo del Welfare italiano venne proprio con l’approvazione di tre riforme sociali: nel 1978 furono approvate la legge 180 sulla chiusura dei manicomi (Legge Basaglia), la legge 194 (tutela sociale della “maternità consapevole”) e la legge 833, proposta del ministro della sanità Tina Anselmi, che istituì il Servizio Sanitario Nazionale (in sostituzione dei numerosi enti mutualistici). A poco a poco profondi cambiamenti sociali, economici e politici hanno trasformato L’Italia, l’Europa e il mondo occidentale. Ma la risposta istituzionale ai diversi momenti politici e sociali non è stata sempre all’altezza dei bisogni reali. Alla crisi petrolifera del 1973 seguì il fenomeno della stagflazione (stagnazione economica e inflazione). Non poteva non esserci ripercussione sulla società, sulle famiglie. Il modello del Welfare era in crisi? Non fu solo un problema italiano: con il governo della Thatcher, la Lady di ferro, fu riformato il sistema pensionistico e sanitario inglese e messe in vendita le case popolari. Anche in America, il presidente Ronald Reagan frenò bruscamente (“Lo Stato non è mai la soluzione, lo Stato è il problema”) e incoraggiando la partecipazione privata nella sanità, ridusse la spesa per il welfare. Il risultato fu l’aumento delle disuguaglianze sociali, la riduzione dei servizi e l’introduzione di meccanismi di mercato nella gestione dei servizi pubblici. Oggi, in Italia come in gran parte del mondo l’invecchiamento demografico mette sotto pressione i sistemi pensionistici e sanitari. C’è la globalizzazione, che riduce la capacità nazionale di decidere, in autonomia, le politiche sociali. I cambiamenti climatici richiedono modelli di protezione ambientale. E c’è una mentalità dura a cambiare, perché come disse la scrittrice e attivista americana Helen Keller “Fino a quando la grande maggioranza delle persone non sarà colma del senso di responsabilità reciproca per il benessere di ognuno, la giustizia sociale non potrà mai essere raggiunta”.

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