Una fune tesa tra Bruxelles e Washington. Sotto, il vuoto. Sopra, Giorgia Meloni che avanza a passi misurati, le braccia larghe, lo sguardo fisso sull’orizzonte. Nessun salto. Nessuna caduta. Nessuna scelta definitiva. È appena finito, l’altro ieri, il discorso con cui la presidente del Consiglio ha definito in Parlamento la strategia dell’Italia dentro e fuori dai confini nazionali. C’è abbastanza Europa da non rompere con Bruxelles. Abbastanza ambiguità da non rompere con Trump. Abbastanza Ucraina da non essere accusata di tradimento. Ma senza soldati, senza l’uso degli asset russi congelati, tenuti fuori dal campo non per una ragione di principio, ma perché toccarli significherebbe aprire una faglia politica che la maggioranza potrebbe non essere in grado di reggere.
È una linea che non è una linea. Una politica estera a bassa intensità. Un atlantismo prudente fino alla rarefazione. Un europeismo condizionato, rinviato, subordinato. La guerra c’è, ma resta fuori campo, come un rumore di fondo.
Ora si avvicina il voto sulla mozione di maggioranza. Un esercizio di equilibrismo spericolato. Un testo costruito per coprire sotto la cenere tutte le contraddizioni del governo alla vigilia del Consiglio europeo. Ogni verbo è attenuato. Ogni impegno concreto sottoposto a condizioni ad oggi irrealizzabili. Non si dice cosa l’Italia farà davvero. Non si dice fino a dove intende spingersi. Si prende tempo.
Eppure al Consiglio europeo bisognerà scrivere una parola ultima. Decidere se stare, con tutte le energie e senza riserve, dalla parte di Kiev e dell’Europa. Decidere se fare ciò che il premier polacco ieri ha detto con brutale chiarezza: versare i soldi oggi per non versare il sangue domani.
A quel punto, per un istante, sembra accadere qualcosa. Un colpo di teatro. La scena che ribalta il copione. Elly Schlein si alza e dice: votiamo noi la mozione di maggioranza. Anzi, pretendiamo che sia più chiara e meno equivoca. Votiamo l’uso degli asset russi per finanziare la resistenza di Kiev. Votiamo l’adesione dell’Italia alla difesa dell’Ucraina attraverso una forza di pace, secondo una tradizione che nella Seconda Repubblica ci ha visti in prima linea nei Balcani e in Afghanistan. E la votiamo a nome del PD e di tutta l’opposizione che intenda sostenerla, perché sulla difesa dell’Ucraina e dell’Europa non esistono maggioranza e opposizione: esiste una responsabilità nazionale comune. E se la maggioranza non la sente o non la assume, saremo noi a farlo.
È un terremoto. Una scossa vera. Una mossa capace di portare allo scoperto tutte le contraddizioni del governo Meloni. Una candidatura esplicita dell’opposizione a rappresentare l’alternativa di governo nella fase più delicata che si apre nel contesto europeo, mentre Trump e Putin lavorano, in modo convergente, alla disarticolazione strategica del Vecchio Continente.
Una mossa del genere mette i due poli in un rapporto finalmente paritario. In una rivalità reale. Dà forza all’Italia. La fa parlare all’unisono con le parole di Mattarella. La pone come il perno politico e simbolico dell’europeismo in questa congiuntura.
Poi la sveglia. Stiamo sognando a occhi aperti. Elly Schlein parla per tredici minuti. E comincia dalle liste d’attesa. Dal salario minimo. Poi vira su Gaza e il riconoscimento della Palestina. L’Ucraina la sorvola dall’alto, come un dossier troppo scivoloso per essere affrontato. La sua è retorica vuota, che nulla dice nel merito. Contesta la spaccatura della maggioranza e la vaghezza della sua mozione, ma senza spiegare che cosa quella mozione avrebbe dovuto e potuto dire. Senza mai pronunciare la parola asset russi. Senza mai pronunciare la parola truppe. Un’operazione di ipocrisia retorica che copre una difficoltà profonda. Difficoltà che si riflette plasticamente nelle sei mozioni diverse dell’opposizione.
Nei distinguo che attraversano trasversalmente il campo largo e ogni singolo partito che pretende di farne parte. A cominciare dal PD, dove convivono da tempo due universi contrapposti: quello, riformista ma minoritario, preoccupato di ricomporre il tempo perduto di una coscienza europea, e quello strisciante ma largamente maggioritario in cui la critica radicale all’Occidente e alla Nato si nasconde dietro un pacifismo troppo smaccato per essere credibile. È quest’ultimo il campo della segretaria, che non a caso non ha mai pensato seriamente di recarsi a Kiev. E che ha celato, dietro la retorica dell’esercito comune, la propria idiosincrasia ad assumere una responsabilità diretta sulla difesa europea. Queste contraddizioni si riflettono anche dentro l’intellighenzia della sinistra e nei circoli culturali che ne orientano il discorso pubblico. È il caso della rivista Limes, dove l’analisi geopolitica, legittima e necessaria, scivola spesso in una rappresentazione del mondo come pura arena di potenze, in cui il diritto scompare e l’aggressione russa viene normalizzata come fatto strutturale, inevitabile, quasi giustificabile. È il caso di Massimo Cacciari, il cui nichilismo svuota l’Europa di soggettività e finisce per assolvere l’autocrazia in nome di una presunta superiorità tragica della storia. Due modalità diverse, ma convergenti, di rimozione della responsabilità. A riprova che sotto la cenere cova ancora, da sempre e inesausto, il fuoco dell’ideologia.
Qualcosa di molto profondo è cambiato in Italia nei quarantasei mesi che vanno dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina a oggi. La maggior novità riguarda un rovesciamento narrativo. Storicamente le questioni internazionali sono state sempre marginali nel dibattito pubblico, confinate non a caso nelle ultime pagine dei giornali. Questa marginalità, paradossalmente, garantiva ai governi uno spazio di realismo e di agibilità politica. Oggi accade l’opposto. La politica estera è stata trascinata al centro dell’agorà ed è diventata uno dei fattori che definiscono la politica interna, i rapporti di forza e la leva di formazione del consenso. La conseguenza è stata la sua semplificazione e polarizzazione, cioè la riduzione a due identità contrapposte nello schema del talk show. Da una parte un europeismo esangue, imbarazzato, residuo della tradizione riformista. Dall’altra un blocco indistinto in cui pacifismo militante e putinismo convivono, saldando nostalgia ideologica e fascinazione per l’uomo forte che decide in fretta.
Questa contrapposizione attraversa la classe dirigente e la società. Taglia trasversalmente la base elettorale di tutti i partiti. Diventa un fattore paralizzante. E rende tragicamente attuale la specificità del caso italiano: l’inadeguatezza a misurarsi con la complessità che incombe sul destino del Paese. C’è il rischio di aprire una frattura politica e istituzionale senza precedenti, simile a quella che, alla fine della Prima Repubblica, ha segnato il momento più drammatico della storia.


















