La transizione verde non è neutrale: è disuguale, coloniale e guidata da nuovi equilibri geopolitici. Dalla COP30 alla corsa per litio e IA, ecco il vero volto del cambiamento climatico globale
Si sbaglia pensando che sono soltanto le guerre in corso a ridisegnare i rapporti di forza nella geopolitica del mondo. Alla COP30 di Belém, in mezzo all’Amazzonia, i numeri hanno raccontato una verità semplice: mentre i negoziatori limano le virgole dei comunicati finali, le emissioni continuano a salire. Nel 2024 il mondo ha emesso circa 53,2 miliardi di tonnellate equivalenti di gas serra, un nuovo record. Cina e Stati Uniti da soli valgono quasi il 45% delle emissioni da combustibili fossili, seguiti da Unione europea e India. Sullo sfondo, il Sud globale chiede spazio per svilupparsi, mentre il Sud Europa scopre di essere periferia energetica nel club dei “virtuosi.”
La retorica ufficiale parla di “transizione giusta”.
Ma basta guardare la geografia del potere per capire che la transizione, oggi, è prima di tutto un capitolo di geopolitica. Non riguarda solo ciò che esce dai nostri tubi di scappamento: riguarda dove scaviamo il litio e il cobalto, dove si concentrano i data center dell’intelligenza artificiale, chi controlla le rotte del gas, chi incassa i profitti e chi resta con i polmoni malati o le falde inquinate.
Deforestazione, nulla di fatto
Il primo paradosso è scritto nel luogo stesso in cui si è svolto il vertice. Belém, porta dell’Amazzonia, ha ospitato la “COP delle foreste” proprio mentre il pianeta brucia come e più di prima. Nonostante gli impegni ad azzerare la deforestazione entro il 2030, una roadmap vincolante non è passata. Pesano le resistenze dei grandi esportatori di petrolio e gas, ma anche dei Brics che parlano in nome del Sud globale mentre continuano a spingere sul carbone. Anche quando si annunciano fondi per proteggere le foreste, i popoli che le abitano – comunità indigene, quilombola (discendenti degli schiavi fuggiti), contadini senza terra – restano quasi sempre comparse.
La mappa del potere climatico non coincide con quella delle emissioni, ma con quella dei flussi finanziari. A Belém governi e privati hanno sbandierato centinaia di miliardi di investimenti in energie “pulite“, ma la quota che arriverà davvero nei paesi più poveri resta minoritaria. Nelle sale della COP si aggiravano oltre milleseicento lobbisti dell’industria fossile: il potere di veto viaggia ancora con i vecchi combustibili. È la vecchia storia: il Nord del mondo ha costruito la sua ricchezza bruciando carbone, petrolio e gas; ora chiede al resto del pianeta di saltare direttamente all’era rinnovabile, senza mettere sul tavolo il denaro necessario.

Così la “transizione giusta” rischia di essere un patto coloniale travestito da svolta verde. Intanto il pianeta investe più nel prepararsi alle guerre che nel prevenire il caos climatico.
Le spese militari battono quelle per il clima
Nel 2024 la spesa militare mondiale ha toccato i 2,7 trilioni di dollari, con un balzo di quasi il 10% in un solo anno: la crescita più forte dalla fine della Guerra fredda. Gli stessi Stati che litigano per trovare 100 miliardi l’anno di finanziamenti per il clima trovano senza difficoltà somme venti volte maggiori per armi, basi, nuove alleanze. Le alleanze militari – dalla Nato all’Aukus – prevedono clausole di difesa automatica, tempi certi, linee rosse; le “alleanze per il clima” sono volontarie, senza sanzioni per chi non rispetta gli impegni. La geopolitica del clima nasce già zoppa: il mondo si organizza con cura per combattere le guerre del presente, ma tratta il riscaldamento globale come un dossier negoziabile, non come un attacco alla sicurezza collettiva.
Guardiamo alla rivoluzione elettrica. Le batterie al litio sono il cuore dell’auto del futuro, ma il litio non è ovunque. Il grosso dell’estrazione mondiale è concentrato in poche nazioni: Australia, Cile, Cina, Argentina. Per il cobalto, la concentrazione è ancora più estrema: oltre il 70% viene estratto in un solo paese, la Repubblica Democratica del Congo, mentre la raffinazione è dominata dalla Cina.
L’intera catena dell’auto elettrica – dalla miniera al concessionario – dipende così da pochi snodi strategici. Se un governo chiude un rubinetto, o se un conflitto blocca un porto, l’effetto si sente nelle fabbriche europee e nelle tasche degli automobilisti. Nel frattempo, i paesi che ospitano i giacimenti subiscono spesso lo stesso copione: concessioni opache, lavoro minorile, inquinamento delle acque, repressione delle comunità locali. Il Sud globale fornisce le materie prime “verdi” a basso costo, il Nord le trasforma in prodotti ad alto valore aggiunto e in obiettivi climatici da esibire ai vertici Onu. È una transizione che cambia il colore dell’energia, ma non i rapporti di forza.
Decarbonizzazione: Ue spaccata
Questa asimmetria attraversa anche il Sud Europa e il Sud Italia. L’Unione europea si è presentata a COP30 come leader della decarbonizzazione, ma al suo interno la geografia è spaccata. Germania, Francia, i paesi del Nord attraggono la quota maggiore degli investimenti in rinnovabili. Le regioni mediterranee restano il retrobottega: grandi potenzialità di sole e vento, ma infrastrutture lente, reti elettriche fragili, territori trattati come corridoi per gasdotti e cavi ad alta tensione più che come protagonisti della nuova economia. In molte aree del Mezzogiorno manca ancora una stazione ferroviaria degna di questo nome, le colonnine per la ricarica delle auto elettriche sono rare, i trasporti pubblici si assottigliano.
Qui esplode il paradosso sociale della transizione: nelle metropoli ci si ammala di smog in coda nel traffico; nelle campagne e nei piccoli centri si rischia di restare tagliati fuori. Se domani entra in vigore il divieto di circolare con l’auto vecchia diesel, chi vive in un paese senza treni e con due corse di autobus al giorno ha una scelta sola: violare le regole o rinunciare a lavorare. La rivoluzione elettrica che promette “mobilità per tutti” rischia di creare una Ztl di classe: chi può permettersi l’auto nuova entra, gli altri restano ai margini.
IA, pro e contro per l’ambiente
In questo quadro entra in scena l’intelligenza artificiale, evocata a Belém come strumento per “gestire la complessità” della transizione. L’IA può davvero aiutare: ottimizzare le reti elettriche, prevedere ondate di calore e alluvioni, ridurre sprechi energetici. Ma anche qui la geopolitica non perdona. I grandi modelli e i sistemi di calcolo che li sorreggono consumano sempre più energia e acqua, concentrando potere nelle mani di poche aziende e di pochi paesi in grado di ospitare data center giganteschi. Nel 2024 i data center hanno già assorbito circa l’1,5% dell’elettricità mondiale, e secondo le stime potrebbero più che raddoppiare i loro consumi entro il 2030, fino a sfiorare l’equivalente di un “Giappone” aggiuntivo collegato alla presa. La gran parte di questa domanda in più si concentrerà in tre blocchi: Stati Uniti, Cina, Unione europea. Non è un caso, allora, che nella discussione sull’energia per l’IA torni di moda il nucleare.
Oggi gli oltre quattrocento reattori in funzione in più di trenta paesi forniscono circa il 9% dell’elettricità mondiale e rappresentano la seconda fonte di energia a basse emissioni dopo l’idroelettrico. Governi e colossi digitali guardano ai nuovi reattori, compresi i piccoli moduli “plug and play“, come alla presa ideale per alimentare le cittadelle dell’IA: produzione continua, poche emissioni di CO2, grandi volumi di potenza concentrati vicino ai poli industriali.

Il rischio è che, nel nome dell’“IA verde”, si acceleri una rinascita nucleare decisa dall’alto, con gli stessi squilibri democratici che oggi vediamo nella transizione fossile-elettrica: chi vive accanto alle centrali o lungo i corridoi delle nuove infrastrutture viene consultato poco e subisce molto.
Scelte tecnologice, poteri e confini
La “COP della verità“, come l’ha battezzata il governo brasiliano, ci ha consegnato quindi una verità scomoda: non esiste una transizione neutrale. Ogni scelta tecnologica ridisegna confini, gerarchie, dipendenze. Chi controlla le miniere di litio e cobalto, chi possiede i brevetti delle batterie, chi decide dove sorgeranno le gigafactory e i data center, chi siede nei consigli di amministrazione delle grandi utility, sta scrivendo la geopolitica del clima più di molte dichiarazioni finali.
Per rompere questa dinamica non basta cambiare il motore delle auto o piantare qualche albero in più. Servono soldi veri, trasferiti in modo stabile dal Nord al Sud del mondo, non solo come “aiuti“, ma come restituzione di un debito climatico storico. Soldi che diventerebbero comunque una forma di colonizzazione ulteriore senza potere decisionale alle comunità che vivono nei territori chiave della transizione – dall’Amazzonia alla Calabria – perché possano dire no ai progetti distruttivi e sì a un altro modello di sviluppo. L’unico passaggio concreto lo fornirebbe una pianificazione pubblica che non lasci la transizione in mano alla somma di business plan privati, ma la tratti per quello che è: terreno centrale di un nuovo conflitto sociale e geopolitico.









