Claudio Chiappucci, l’atmosfera delle corse di una volta, e un ciclismo ormai dipendente dai numeri
Il ciclismo è di tutti, perché non c’è un biglietto da pagare. Certo, come gli altri sport è cambiato. Contano i dati, l’algoritmo, l’intelligenza artificiale, la preparazione scientifica alla gara. Difficile trovare un campione senza l’auricolare, la oreillette, senza un contatto diretto con l’auto ammiraglia, che in genere dà ordini, predica prudenza e frena l’istinto. Sarà per questo che si torna spesso nel campo della nostalgia e dei ricordi. Il ciclismo e il suo pubblico, come eravamo prima che le biciclette diventassero spaziali. Prima delle piste ciclabili e del boom del cicloturismo. Quando gli atleti erano liberi e i colpi di testa, le fughe disperate davano spettacolo. Claudio Chiappucci lo racconta in questo libro “I luoghi del Diablo” (Dfg) firmato con Federico Vergari.
I campioni scrivono la loro bio sempre troppo presto, come se poi non ci fosse più nulla da raccontare. E invece no: Chiappucci è uno degli ultimi romantici della bici, ci porta di rimbalzo a qualche confronto fra ieri e oggi e promette nuove puntate.
Prima dovremmo spiegare perché Chiappucci piace sempre, e un libro del genere sta bene dentro un supplemento di Cultura. Perché il ciclismo, molto più di altri sport, continua ad essere un fenomeno popolare e si incrocia talvolta con la storia. Perché ai ciclisti viene riconosciuta la fatica, mai comparabile con quella agiata dei calciatori. Cominci a pedalare a dieci anni, fai le gare a dodici, e smetti stremato a 35, spesso dopo una vita malpagata da gregario. E infine perché il ciclismo ha stimolato le penne migliori, da Alfonso Gatto a Indro Montanelli, da Mario Fossati a Gianni Mura: anche se ora resta tristemente confinato nelle pagine sportive.
Scopriamo quindi Chiappucci, l’atleta dell’estro, della libertà e della fuga. Non è un modello di stile, né un fine diplomatico, scrive proprio Mura. “Ma ha cuore, e questo la gente lo capisce”. Il cuore arriva spesso dove il fisico non ce la fa: non era Maradona uno scorfano divino (Brera), un normotipo con tanti riccioli? Scopriamolo, allora, nell’estate del ’90: le notti magiche sono passate, è rimasto l’incubo della Nazionale di calcio buttata fuori dal Mondiale per un colpo di testa di Caniggia, in una Napoli che tifava per il suo Diego. Gli stadi sono tornati cattedrali nel deserto. In quell’estate di frustrazione tifosa, si affaccia al mondo il Diablo, non ancora soprannominato così: saranno i colombiani a battezzarlo, due anni dopo.
Ha di speciale il rapporto con la gente. È uno scalatore con qualche vena di follia, gareggia in America Latina nonostante le riserve di qualche critico, e lì si fa appezzare. Lo conoscono perché si ferma a prendere un caffè con i tifosi colombiani. Ma è proprio sulle strade di Francia che sente il fiato buono della gente sul collo. I francesi lo amano, e non è scontato, come dimostra la celebre canzone di Paolo Conte su Bartali. Lo amano come accadeva con Coppi, che si sentiva a casa anche in certe kermesse serali su pista, e comprò perfino casa oltralpe. Per otto anni consecutivi Chiappucci fa il Giro e il Tour, non succede spesso. In Borgogna gli dedicano un pezzo di pavè, il lastricato assassino della Parigi-Roubaix. A San Sebastian, nei Paesi Baschi, lo nominano “Hombre de Casa”. Ha la cittadinanza onoraria di Utsunomiya, perché va a correre la Japan Cup, la sua faccia è sulle card telefoniche del Sol Levante.
Chiappucci è uno che cerca lo show, non è un calcolatore, spesso non si guarda nemmeno indietro. Al Tour del ’90 segue Pensec per un moto di rabbia, ma è una fuga senza senso. E LeMond se ne avvantaggerà, fino a vincere sui Campi Elisi: lui arriva secondo. Appena può, il Diablo – detto anche Monzon per il naso schiacciato, Andreotti, per la gobba che fa quando si butta in discesa, Calimero, Uomo di ferro, Bull, Clodiò (dai francesi) – scappa, la sua caratteristica è questa: “La mia fuga è il modo di superare la paura di cadere”. Fin dalla prima vittoria, a sedici anni.
E arriva il giorno in cui Chiappucci buca il tg delle 13 durante la tappa del Tour che arriva al Sestriere. Sembra quasi un’edizione straordinaria. Alla partenza promette: «Oggi faccio un casino!». All’arrivo dice: «Devo aver visto comparire la Madonna». 220 chilometri in fuga e 126 a tirare da solo, per la foga e la furia nella discesa dall’Iseran supera la moto dell’organizzazione. Lo fa senza ricevere molte informazioni, non è ancora il tempo degli auricolari. Non sa che alle spalle nasce una strana alleanza fra Bugno e Indurain. Gianni, il suo rivale, con quel fisico così diverso dal suo, con la mentalità di Chiappucci sarebbe l’incrocio perfetto. E poi lo spagnolo, il Cannibale, il Clark Kent che si trasforma in Superman nelle cronometro, la locomotiva: manca solo che gli esca il fumo dalle narici. Ma il Diablo è più forte di loro, passa fra due ali di folla, la gente gli offre acqua, dà inutili pacche, qualche spintarella. A Chiappucci sembra di nuotare nella gente, vince con la sua maglia a pois come la Pimpa, quella che premia il miglior scalatore: sette ore 44 minuti e 51″.
Indurain ne approfitta e diventa maglia gialla. Repubblica forza la sua grafica da tabloid e fa un titolo di taglio in prima in corsivo: “Come Coppi”, che al Sestriere aveva vinto quarant’anni prima. Chiappucci manda un pensiero al padre scomparso, che proprio con il Campionissimo condivise la prigionia in Nordafrica. Poi dice: «Sono a pezzi, ma chi se ne frega». Al suo paese scendono in piazza come se avesse vinto la Nazionale. Lui abbraccia Gino Bartali al traguardo, che incroci fra passato e presente. Indurain si lamenta del pubblico, una marea di gente salita con tutti i mezzi, richiamata da “una vittoria antichissima” come scrive Mura. «Quel giorno, il social network ero io!» dice oggi.
Ma la gioia degli italiani dura poco: il giorno dopo la mafia piazza un’autobomba in via d’Amelio a Palermo, muore il giudice Borsellino insieme a cinque uomini della sua scorta: era andato a incontrare la madre. La maledetta estate del ’92. Fanno vedere a Claudio le prime pagine dall’Italia, la gioia dell’impresa è durata poco. «Ci sentivamo senza una guida». Passa il tempo, e lui va a incontrare la sorella del magistrato.
Qui non si parla di risultati sportivi, che pure sono stati lusinghieri. Si parla di approccio allo sport come forma di vita: mai arrendersi, aprirsi sempre alla gente. Lasciare delle tracce, incontrare qualcuno che ancora gli dice: grazie per quella gioia. Una volta la polizia ferma lui e un amico per un controllo. Perquisiscono il bagagliaio, poi lo riconoscono. Fanno una specie di festa e poi si dimenticano il mitra dietro.
Oggi Chiappucci guarda le salite con altri occhi ma le percorre ancora. Un lungo impegno nel sociale, la voglia di misurarsi con strane sfide: come “L’isola dei Famosi” e la corsa contro un cavallo. “Sono stato per qualcuno un sogno e una promessa di libertà”.
E forse così si arriva al valore del campione: come esempio e come speranza, condannato a stare da solo in mezzo a tanta gente, in mezzo ai ragazzini che fanno i temi su di te.
Con un altro insegnamento: tocca avere un rapporto corretto e non nevrotico con i concorrenti, vale per il ciclismo come in altre dimensioni: un competitor forte aiuta a fare meglio. Chiappucci senza Bugno, senza Indurain, magari avrebbe vinto anche di più. Ma è quella che si chiama “rivalità positiva”. Essere generosi come Clodiò che si chiede. “Come avrei fatto senza di loro?”
Nel frattempo, quarant’anni dopo, Moser e Saronni continuano a litigare.
(Nell’immagine, il quadro di Aligi Sassu “I ciclisti”)









