L’America dice addio a se stessa, dopo l’American Dream, gli americani mettono fine al proprio “impero del consenso” in favore della forza
Parole come queste non si erano mai lette in un documento di questo livello. Questa dev’essere stata la considerazione unanime di qualunque vertice politico, militare e di intelligence da Pyonyang a Brasilia quando ieri – con grande urgenza – avrà messo le mani sull’ultima Strategia di sicurezza nazionale americana, il documento che traccia le linee guida circa come Washington veda il mondo e quali siano le sue priorità. Una doccia fredda soprattutto per gli alleati europei: il Vecchio Continente viene definito come sull’orlo di una reale «cancellazione della propria civiltà» a causa di un mix di immigrazione di massa, autoritarismo e censura (di cui viene accusata l’Unione Europea) e un modello sociale obsoleto ed esposto alla crisi demografica.
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Le nazioni europee sono giudicate avviate volontariamente («molte di esse stanno raddoppiando gli sforzi in tal senso») su un percorso esiziale, al punto che Washington si spinge a dubitare che nel prossimo futuro queste possano essere considerate degli alleati militarmente ed economicamente affidabili. «Se questo trend dovesse continuare il continente sarà irriconoscibile nel giro di vent’anni o meno», conclude il documento ventilando lo spettro che alcuni Paesi europei potrebbero presto essere in maggioranza non-europei e dunque non condividere più con gli Stati Uniti i medesimi valori e obiettivi.
Muta il pensiero strategico americano
Un giudizio impietoso, figlio di una riconfigurazione dell’intero pensiero strategico americano che assume i contorni quasi di un cambio pelle. Già, perché l’assunto base della nuova strategia statunitense diventa l’abbandono di qualunque pretesa di promozione dei valori democratici e occidentali nel mondo, ivi compresa la rinuncia esplicita a interferire negli affari interni degli altri Paesi laddove i propri interessi economici o militari non siano minacciati.
Si tratta di un passaggio che ha dell’epocale. L’America è sempre stata un impero e come tale ha sempre anteposto i propri interessi ai propri valori. Ma questo non significa che non ne avesse né tantomeno che la maggior parte della propria popolazione e della propria classe dirigente non credesse in tali valori. Soprattutto però, gli interessi nazionali americani non hanno mai negato il fatto che l’impianto valoriale che li vestiva era condiviso da milioni di persone in tutto il mondo. Al punto che dopo la Seconda Guerra Mondiale la nascita dell’impero fu accolta – se non addirittura voluta – dalle nazioni che oggi potremmo definire “in orbita americana”.
L’impero del consenso
La nascita della Nato, per esempio, fu un’idea degli europei: la ebbero gli inglesi e i francesi poi ebbero l’intuizione di espanderla non solo alle nazioni affacciate sull’Atlantico ma anche ai Paesi mediterranei, come l’Italia. In altre parole, l’impero americano è stato un impero, ma unico nel suo genere. L’impero del consenso, perché basato sul consenso comune – tra egemone e alleati – che fosse giusto e nel proprio interesse appartenere a tale assetto a guida americana. All’impero del consenso si contrapponeva, al di là della Cortina di ferro, un autentico “impero della forza” sovietico che con le sue truppe manteneva in riga manu militari i propri Stati satelliti dal Baltico al Mar Nero.
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La distinzione era profonda. Mentre a Oriente prevaleva la violenza bruta e sommaria trasformatasi in ideologia, l’Occidente faceva del governo attraverso la forza dei propri argomenti la cifra della propria identità. Oggi l’America dice al mondo che quel consenso è finito, perché i primi a non crederci più sono proprio loro, gli americani. Sono passati quasi dieci anni da quando Donald Trump arrivò alla Casa Bianca sentenziando senza appello: «Il Sogno americano è morto». La nuova strategia nazionale americana è figlia di quel grido. Di un’America stanca, che inizia a chiudersi in se stessa, che dichiara che il consenso è finito e dunque ora anche lei si appresta a diventare quello che appena quattro decenni fa definiva “l’impero del Male”, vale a dire un impero della forza.
L’America dice addio a se stessa
Perché se il sogno si è esaurito e infranto non ti restano altro che le maniere forti. Tra le macerie dell’internazionalismo liberal – ultima incarnazione del messianismo politico che da Woodrow Wilson in poi ha propugnato l’America quale esportatrice di democrazia – l’amministrazione Trump non ha altro da offrire ai propri sudditi, interni ed esterni, se non l’opzione di un impero che abbandona i suoi ideali per rinchiudersi nel perimetro dei propri interessi, dimenticando che far avanzare i propri valori tra gli altri popoli sia sempre stato un interesse primario di qualunque nazione.
Il ripudio dell’America che fu
Il “nazional-cinismo” che sembra rivestire queste considerazioni, pur nel suo comprensibile (e, per certi versi, encomiabile) appello al realismo e al pragmatismo, suona quasi più come un ripudio per ciò che l’America è stata per decenni che non per i propri alleati. Così facendo però rischia di indebolire questi ultimi o, un giorno, di non averne affatto.
Questo si inserisce in una tendenza tradizionale dei decisori americani a manifestare una seria incapacità di figurarsi i problemi prima che si presentino a bussare alla loro porta. Una sorta di “sguardo corto” che ha spesso impedito a Washington di elaborare strategie di lungo respiro o di esercitare la dovuta elasticità nel bilanciare il perseguimento dei propri interessi immediati con le possibile ricadute di tale azioni nel futuro.
Probabilmente questo si ricollega alla tendenza messianica della nazione americana, alla propria auto-percezione eccezionalista, alla mancanza di una storia precedente il XVIII° secolo. In altre parole, gli americani non concepiscono il futuro perché non hanno passato. Ma, rinunciando alla propria anima valoriale, Washington rischia oggi di privarsi del suo, di futuro. Perché il dramma degli imperi della forza – la storia insegna – è che durano solo tanto quanto l’effimera brutalità che li sorregge.









