ll giornalista e scrittore commenta il “fenomeno Albanese” e gli atti di intolleranza registrati in piazze e università
C’è un’Italia che ama raccontarsi linda e antifascista, ma appena gratti la vernice riaffiora il rimosso, l’imbarazzo, quello che Pierluigi Battista definisce «il patto dell’oblio».
La vicenda di Tullio Terni, scienziato di fama, docente universitario, è la cartina di tornasole: perseguitato due volte, prima dal regime e poi tradito e messo al bando dall’Accademia dei Lincei. Battista, giornalista e scrittore, la racconta e spalanca quella porta che molti avrebbero voluto tenere sprangata. Dentro c’è un odore stantio che somiglia alla nostra ipocrisia nazionale. Professori che giurarono al duce e poi si riciclarono come padri nobili della democrazia, vittime che diventano imputati, carnefici che scivolano nella nebbia comoda della memoria corta. Questa intervista è un viaggio nella zona grigia che non piace a nessuno: proprio per questo, è necessaria.
Battista, Tullio Terni, viene prima umiliato e cacciato dalle leggi razziste del fascismo e poi bollato come “complice” di quel regime. A chi serviva questa seconda epurazione morale?
«Terni venne cacciato in totale solitudine: dai suoi colleghi universitari non gli arrivò un briciolo di solidarietà. Come tanti ebrei per sfuggire alle discriminazioni razziali del regime, Terni aveva cercato appigli, si era difeso, aveva detto “io ho fatto la guerra”, “io sono stato fascista”. Questo non lo salvò dalla persecuzione ma divenne l’elemento di incriminazione in base al quale la commissione epuratrice di cui, oltre a Giovanni Levi, padre della Ginzburg, fanno parte professori – che anche loro, come tanti, aveva giurato fedeltà al fascismo – trasformò Terni in espiatorio di quello che io ho definito il patto dell’oblio».
Perché questa storia è rimasta così a lungo nascosta?
«È una storia talmente forte che viene appunto da chiederselo. Ci fu un patto tacito».
Tra i “riciclati” vi furono anche nomi eccellenti?
«Alcuni già si conoscono, potrei dire Eugenio Garin, Norberto Bobbio che insegnava a Padova; Galante Garrone scriveva su una rivista che si chiamava “Diritto razzista”».
Quanto pesò in questo patto tacito l’imbarazzo di chi aveva occupato le cattedre lasciate libere dai professori ebrei espulsi?
«Pesò totalmente. Fu il “peso”. Nessuno di questi professori restituì di sua volontà la cattedra usurpata ai professori ebrei. Stiamo parlando dei migliori nomi della cultura anti-fascista. Bisogna considerare che i professori ebrei all’università erano il 7% del corpo accademico formato allora da circa 1200/1300 persone. Dopo la liberazione contrastarono il rientro degli ebrei espulsi e si tennero ben strette le cattedre e fu inventata la figura sei “soprannumerari”, una cattedra destinata a morire con l’uscita di chi la stava occupando. Ma non ci furono solo quelli che presero il posto. Ci furono pure quelli che scrissero nelle riviste che poi sarebbero passate per palestre di antifascismo e che scrissero cose antisemite avevano collaborato fino agli anni ‘42/43 con il Primato di Bottai o il Guf gli universitari fascisti, tutti entusiasti di denunciare l’elemento ebraico. Questi ebrei rimasero soli. E furono loro stessi a mantenere il silenzio. Gli altri avevano il senso di colpa da tacitare; loro, gli ebrei, il senso di vergogna di aver fatto di tutto per salvarsi. Viene in mente Primo Levi, il suo “Sommersi e salvati”. Ai sopravvissuti qualcuno poteva chiedere “perché tutti sono morti e tu no?, cos’hai fatto per sopravvivere?”. Chi aveva cambiato nome, chi si era comprato un certificato di battesimo, chi aveva tentato di “arianizzarsi”. Dinanzi a tutto questo scelsero il silenzio. L’unico che ruppe questo silenzio fu Benedetto Croce che parlò di “nefandezze” e a dargliene atto fu Vittorio Foa, come ricordo nel mio libro».
Il “caso” Terni sembra il paradigma perfetto di un’Italia che prima espelle, poi dimentica e infine giudica: perché questo Paese riesce a trasformare le sue vittime in colpevoli, e i carnefici in figure ricomposte nella nebbia dell’oblio nazionale?
«Certo, ci vedo anche questo. Ma sono contrario ad una cosa che spesso viene detta. E cioè che l’Italia non abbia fatto i conti con il fascismo. Io penso che quei conti più o meno siano stati fatti, non sono stati fatti i conti con l’antisemitismo. Prendere la cattedra di uno che è stato appena cacciato per questioni razziali, questo è non voler fare i conti. È questa una storia nascosta. Voglio ricordare il libro a cura del Senato italiano, con prefazione di Spadolini, allora presidente del Senato, che pure lui, detto tra virgolette, aveva qualcosa da farsi perdonare. Il titolo è “L’abrogazione delle leggi razziali in Italia (1945/1987)”. Erano passati 42 anni ma non c’era stata l’abrogazione integrale, c’erano ancora gli ultimi residui delle leggi razziali. Leggi terribili, piene di soprusi spaventosi, non si poteva andare nei luoghi di villeggiatura, non si poteva insegnare nelle scuole, persino in quelle di cucito, non si poteva avere un telefono, sebbene al tempo erano pochi quelli che già lo avevano. Nel 1955, dieci anni dopo la Liberazione, finalmente ci fu una norma che stabiliva l’equiparazione tra perseguitati politici e perseguitati per motivi razziali. Quei professori di cui abbiamo parlato prima non avevano i requisiti per chiedere un risarcimento per gli anni di allontanamento forzato dalla cattedra. Per 7 anni non avevano ricevuto lo stipendio ma per avere riconosciuti almeno i contributi dissero che avrebbe dovuto esserci un rapporto di continuità. Ma di quale continuità parliamo… erano stati cacciati via!».
Ci furono 12 professori che contro tutto e tutti rifiutarono l’adesione al fascismo e non si “arianizzarono”. Perché questa minoranza eroica resta ancora oggi un’eccezione scomoda nel grande racconto autoassolutorio degli italiani brava gente?
«Me lo chiedo anch’io. Come mai non c’è una targa, un vicolo, una galleria che li ricordi. Sono i veri eroi dell’antifascismo quelli che già nel 1931 per ragioni ideali si rifiutarono di firmare la loro fedeltà al regime fascista, perdendo lavoro, solidarietà affetto. Persero tutto ma nessuno li ricorda. Perché? Perché ricordarli vuol dire che qualcuno ha fatto cose che tu non hai fatto. Un altro patto dell’oblio. Uno di loro fu Gaetano De Santis che faceva parte della “commissione purificatrice” e difese Terni».
Che cosa rivela questa rimozione ostinata, questa incapacità di distinguere tra la Storia e le polemiche del presente, tra la Shoah e Netanyahu, tra la Resistenza e Gaza? Cosa c’è dietro le nuove pulsioni antisemite e la continua sovrapposizione tra comunità ebraica e politica israeliana? Siamo forse davanti a una riedizione – più subdola, più aggiornata – della stessa distorsione che colpì Terni? E che rapporto c’è tra questo libro e quello che sta accadendo anche da noi?
«Questo libro lo avevo in testa da tanto tempo, la storia di Terni era citata in qualche nota a pie’ di pagina. Ma quello che mi ha spinto a scrivere non è quello che sta succedendo, e mi riferisco alle violenze dei pro Pal. Ma a quella cultura democratica che assiste da qualche tempo a questa parte alla nuova caccia all’ebreo come se non fosse accaduto niente. “Normale” che gli studenti ebrei a Torino vengono cacciati dall’Università o dalla pizzeria a Napoli o che in una libreria ci sia un cartello con scritto “vietato l’ingresso ai sionisti”. È normale, tutti zitti. Succede nel mondo, non solo in Italia. Ma da noi succede perché c’è stata ad un certo punto una retorica comune, siamo andati tutti ad applaudire Benigni o “Schindler’s list” e poi, dopo gli applausi, ce ne siamo dimenticati. Abbiamo dato una medaglia a chi, come Francesca Albanese, sostiene che il genocidio sia iniziato 80 anni fa quando gli ebrei cacciarono i palestinesi dalle loro terre e considera il 7 ottobre una risposta alle vessazioni di Israele».
A proposito della Albanese che ha definito l’assalto a “La Stampa” un monito per l’informazione: siamo all’inizio di una escalation è solo un episodio che non avrà un seguito?
«Ci sono dei gruppi violenti antagonisti che fanno della violenza la loro pratica politica. Che hanno preso la causa della demonizzazione di Israele come il loro grande cemento ideologico. La storia di chi dice che sarebbero dei fascisti, infiltrati piccole minoranze, è ridicola. Sembra di essere tornati al tempo delle Brigate rosse “sedicenti”. Erano “fascisti” che si camuffavano da brigatisti. Certe cose non dobbiamo dimenticarle. Quando rapirono Aldo Moro alla Sapienza ci fu un boato di approvazione e non erano certo tutti brigatisti. Poi arrivò Rossana Rossanda, persona intellettualmente onesta e disse: “Io leggo nei comunicati delle Br qualcosa che mi ricorda l’album di famiglia”. Ecco, non c’è una Rossanda, purtroppo, oggi».









