Il politologo della Luiss Giovanni Orsina riflette sulla recente deriva censoria e illiberale in Italia e punta il dito contro l’eccesso di moralismo
Assalti pro-Pal a redazioni di giornali, targhe in memoria di bambini ebrei imbrattate con vernice nera, richieste di esclusione di case editrici di destra. La polarizzazione politica ha come effetto una deriva censoria e illiberale. Giovanni Orsina è politologo, storico del liberalismo e direttore del Dipartimento di Scienze Politiche all’università Luiss.
Di cosa sono sintomo questi episodi di intolleranza?
«È un discorso che va preso da lontano. Viviamo in un mondo ipermoralizzato; se vogliamo, questa ipermoralizzazione è il risvolto della crisi della politica. In un mondo liberale, incentrato sugli individui e sulla loro libertà, il cambiamento avviene cambiando gli individui. Il problema è: come cambiamo le persone? La risposta che si dà è: attraverso processi di moralizzazione. È una degenerazione del liberalismo, un’eterogenesi dei fini. Una società liberale genera processi di ipermoralizzazione che sono illiberali».
Come legge la vicenda dell’università di Bologna e il corso in filosofia per i militari?
«Nulla di quello di cui discutiamo merita tutta l’eco che ha. Viviamo in una sfera pubblica isterica in cui tutto viene amplificato. A ogni modo, la mia opinione personale è che la decisione presa a Bologna sia stata demenziale, chiunque l’abbia presa».
Perché?
«Perché è una decisione moralistica. Come a dire: se accetto di formare i militari, questo vuol dire che accetto eticamente la guerra. È una concezione della morale completamente astratta, animata dall’idea che la testimonianza incida sulla realtà più di quanto non inciderebbe invece entrarci dentro, accettare che esistano i soldati, esista la guerra».

«Un atteggiamento di vera moralità è quello di chi comprende che un soldato che studia filosofia sarà un soldato con un’umanità più profonda e che gestirà in maniera più umana quel male che è la guerra. Il problema è questa idea per cui basta testimoniare per cambiare il mondo».
È d’accordo con Recalcati che vede in movimenti come i pro Pal, il ritorno di un fanatismo ideologico estremo?
«Siamo tornati all’album di famiglia della Rossanda, che però è una cosa di quasi cinquant’anni fa. Che il comunismo sia un’ideologia rivoluzionaria e come tale intollerante è una cosa scontata. Perché si basa sull’idea di aver trovato la verità e che chi non concorda non vede la verità, quindi o è stupido o è corrotto. Ho lavorato sulle carte comuniste dei tardi anni ’40 e ci ho trovato qualcosa che chiamare intolleranza è poco». «È un’ideologia rivoluzionaria, violenta, sopraffattrice. Se l’obiettivo è la rivoluzione, allora tutto diventa legittimo, anche mentire, eliminare notizie scomode, leggere il mondo modellandolo a propria immagine e somiglianza. È un brodo di coltura che è rimasto e che è parte del rivoluzionarismo di sinistra, che si è espresso nel comunismo ma che ha avuto anche molte manifestazioni laterali».
Quali sono le differenze tra il rivoluzionarismo degli anni ’40 e ’50 e quello d’oggi?

«La grande differenza è che allora c’era un Paese-guida che dimostrava che la rivoluzione era possibile e rendeva quella prospettiva realistica. Oggi quel realismo è sfumato, ma lo è da almeno cinquant’anni. Dopo la primavera di Praga del ’68 l’Urss smette di essere un modello ed entra in crisi. Da allora si sono prodotti dei cascami senza più una prospettiva rivoluzionaria. Quelli che hanno devastato la sede della Stampa cosa pensano di ottenere?
È di nuovo una questione moralistica che si abbina a una manifestazione identitaria e a quello che in gergo calcistico chiamerei un fallo di frustrazione. Stiamo parlando di gente che ha bisogno di dire al mondo “io la penso così e io sono nel giusto”. Ma lo dicono in maniera vana e improduttiva, senza che questo abbia nessun effetto se non quello di segnare una testimonianza che si perde nel caos comunicativo del nostro tempo. È come il caso della flottiglia. Per dieci giorni non si è parlato d’altro, adesso chi se la ricorda più?».
Quando parla di “manifestazioni laterali” dell’ideologia rivoluzionaria di sinistra, comprende anche gli episodi di antisemitismo, come quello della sinagoga di Roma?
«In quel caso all’ipermoralismo si aggiungono l’estremismo politico e due elementi ulteriori: il primo è la profonda persistenza dell’antisemitismo e il secondo è dato da antioccidentalismo, antiamericanismo, anticapitalismo. Tutto questo si collega al rivoluzionarismo di cui dicevamo, ma negli episodi di antisemitismo assume una connotazione particolarmente ripugnante».
Cosa pensa delle firme per escludere da “Più libri più liberi” la casa editrice di estrema destra “Passaggio al bosco”?
«La democrazia liberale ha delle contraddizioni che vanno gestite. Se faccio parlare i nazisti posso mettere in pericolo la democrazia liberale, ma se impedisco loro di parlare smetto di essere liberale. Bisogna capire qual è il male minore, ed è una scelta che si fa nella realtà storica. Se “Passaggio al bosco” fosse collegato a un partito che ha il 38% e i cui membri, vestiti di camicie brune, vanno in giro a migliaia per le città a picchiare e a devastare le sedi dei partiti avversi, allora il problema me lo porrei. Ma stiamo parlando di una casa editrice marginale. Da che parte è l’interesse di un liberale? Difendersi da un pericolo risibile o consentire loro di esprimere le proprie idee, discutendone e contestandole? Personalmente non ho alcun dubbio».
Va anche detto che tutto parte da una segnalazione dell’onorevole Fiano, vittima di un episodio di censura da parte del Fronte della gioventù comunista.
«Nel momento in cui per moralismo, con l’idea che solo i giusti devono poter parlare, apri il tema della censura, poi ti avvolgi in una spirale che non si interrompe più. Fiano ragiona in quei termini: io sono giusto quindi devo poter parlare, ma devo anche impedire agli “sbagliati” di parlare. Ma non ci sono giusti e sbagliati, c’è un sistema liberale le cui contraddizioni devono essere gestite nella storia. Oggi “Passaggio al bosco” deve poter partecipare a tutte le fiere librarie che vuole».

C’è un complesso di inferiorità culturale a destra?
«Il complesso di inferiorità ormai è diventato molto più dannoso dell’inferiorità oggettiva, che pure c’è. Anzitutto diciamo che i cattolici di cultura non ne hanno fatta molta. Ne hanno fatta certo le sinistre, ma anche perché la modernità è strutturalmente progressista. Chi pensa la modernità tendenzialmente è di sinistra. Non per caso, da parte conservatrice spesso si parla di “katechon”, il freno, che è anche freno alla modernità. Ma chi frena ha meno bisogno di una cultura perché non deve decidere dove andare. C’è un’asimmetria strutturale, nella modernità, tra destra e sinistra».
È dal ’94 che la destra politica ha spazio e potere, eppure non ha investito sulla cultura.
«La verità è che alla destra politica importa assai poco di fare cultura. Non importava nulla a Berlusconi e non importa nulla all’attuale governo. Quel che gli interessa semmai è tenere in vita il proprio Pantheon, ossia fare un’operazione identitaria e nostalgica. E costantemente rivendicativa, poi. Non c’è nessun dubbio che Pasolini fosse anche un reazionario, ma la destra politica è sempre reattiva, non è in grado di prendere l’iniziativa e vive in un complesso di inferiorità permanente che ha trasformato in un’identità. Ma se vivi nel complesso di inferiorità resterai sempre inferiore, giocherai sempre di rimessa».












