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Pietrangeli, che la terra sia rossa: l’ultimo saluto al Centrale del Foro Italico

L’addio al ‘Pietrangeli’ di Roma domani 3 dicembre: «Sì, perché vedete, io sono l’unico a cui è stato dedicato uno stadio mentre sono ancora in vita. Voglio il mio funerale qui, in questo campo. E se dovesse piovere, rimandiamo»

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Non pioverà, Nicola. Stavolta nessun rinvio. E così saluterai il mondo proprio nel “tuo” campo da tennis, il mitico “Pietrangeli”, lo storico centrale del Foro Italico, il campo più bello del mondo, circondato da statue di marmo in pose virili e vigorose ma anche plastiche e dolci, quello dove i giocatori amano giocare perché quelle statue con le luci e le ombre di maggio sanno essere forza e anche stordimento. Il campo dove tu hai sempre chiesto che fosse celebrato il tuo funerale.

«Sì, perché vedete. io sono l’unico a cui è stato dedicato uno stadio mentre sono ancora in vita. In genere queste cose succedono da morto. Io invece sono a raccontarlo. E ho il privilegio di poter dire da vivo quello che succederà da morto: voglio il mio funerale qui, in questo campo. E se dovesse piovere, rimandiamo».

E come ridevi con gli occhi quando vedevi il tuo futuro e al tempo stesso lo cacciavi via.

Il match più duro

Il blu arrivava prima dell’acuto della risata. Nicola Pietrangeli è morto ieri tra l’alba e la mattina. Da sei mesi giocava il tie break del quinto set nello slam contro la malattia. Alla fine il suo rovescio pennellato è uscito di un’unghia. Game, set, match. Il tennis è fatto così, o si vince o si perde, non è previsto il pareggio.

E tutto sommato Pietrangeli non era uno da pareggio. La morte, a luglio, del secondogenito Giorgio gli aveva piegato le gambe. Ma non ha mai mollato, fino alle ultime ore. Accanto gli altri due figli, Filippo e Marco, i nipotini Matteo e Nicola (che è una bimba e ha i suoi magnifici occhi), la prima moglie Susanna.

La famiglia del tennis

E tutta la famiglia della Federazione: Nicola e Lea Pericoli, senza loro Angelo Binaghi non ha mosso un passo nei venticinque anni di presidenza della Fit, guai a chi lo toccava, guai se qualcuno scordava i posti riservati in prima fila sul Centrale, guai se le scalette delle premiazioni non li vedevano testimonial in campo – sempre in parti uguali, per carità – guai se non erano presenti alle conferenze stampa per raccontare aneddoti, ricordi e progetti.

Jannik Sinner ha espresso in forma privata alla famiglia le proprie condoglianze per la scomparsa di Nicola Pietrangeli. Il campione altoatesino ha preferito questa forma personale, piuttosto che l’utilizzo dei propri canali social, come hanno fatto altri suoi compagni di nazionale.

Nel 2001 il tennis italiano era affacciato sull’abisso della bancarotta. Ricominciare da quei due, da Nicola e Lea, era sembrata l’unica ricetta possibile per costruire un futuro che oggi è il presente: tre Coppe Davis negli ultimi due anni, due Billie Jean King Cup negli ultimi due anni. Della carriera agonistica di Nicola Pietrangeli sappiamo tutto: il più alto numero di incontri disputati in Davis («giocare con la maglia azzurra era impagabile e irrinunciabile»), 164 di cui 120 vinte; la Coppa vinta, la prima, in Cile come capitano non giocatore; le due edizioni del Roland Garros (1959, 1960); gli Internazionali di Roma (1961).

È stato il re della terra rossa, il primo italiano a vincere due titoli del Grande Slam (prima che Sinner azzerasse tutti i record) partecipando a 22 edizioni degli Internazionali d’Italia e 20 del Roland Garros, con quattro finali raggiunte nello Slam parigino.

È il Nicola privato, lo sportivo ancora in carriera che passa il tempo in campo ma anche, parecchio, nei club esclusivi di Montecarlo e in giro per il mondo in compagnie di re, regine e divi di Hollywood, il personaggio di cui forse sappiamo meno. Eppure lui non ha mai fatto mistero dell’egocentrismo un po’ gigione, della vis polemica da “Amici miei”, della “rivalità” buona con Panatta (da ultimo anche con Sinner). Anzi. Un ragazzino nato a Tunisi, padre abruzzese, mamma un po’ francese e un po’ russa, famiglia ricchissima di costruttori poi caduti in disgrazia, che giocava a calcio ma anche a tennis contro il muro.

L’autodidatta

«Chi mi ha insegnato il gesto elegante?», racconta nella biografia “Se piove, rimandiamo” scritta per Sperling & Kupfer con Paolo Rossi.

«Bene, mettetevi seduti: io sono un autodidatta. Il mio maestro è stato il muro. Esatto. Il muro. Ho fatto tantissimo muro da bambino, da solo in strada. A Tunisi. Per ore stavo lì a battere e ribattere la palla. Quelle ore, quei pomeriggi trascorsi in solitudine hanno poi pagato. È così che ho imparato l’arte della pazienza, l’umiltà, la tecnica. Il muro è il nostro specchio». E il tennis si gioca prima di tutto “contro” se stessi.

Le imprese e le ferite

Il bambino autodidatta che arriva a Roma a sette anni, dopo un viaggio rocambolesco, ha riempito libri, pomeriggi e serate di aneddoti e ricordi. Alcuni memorabili: nella finale del ’60 a Parigi, il cileno Ayala lo aveva fatto correre talmente tanto tra smorzate e pallonetti che Nick, alla fine del terzo set, si tolse le scarpe (allora di stoffa) e mostrò i calzini zuppi di terra rossa e sangue usciti dalle piaghe. Eppure, scrissero le cronache, «nonostante la carne viva Pietrangeli vinse il suo secondo Roland Garros danzando in campo con l’eleganza di un matador».

Il tennis di ieri e di oggi

Testimone del tennis di oggi, ricordava con nostalgia il suo: «Ai miei tempi si giocava a tennis per divertirsi, viaggiare, conoscere gente. È stato così fino alla fine degli anni Settanta, inizio Ottanta. La mia carriera è la storia di un tennis profondamente diverso da quello attuale, che definirei blindato. Il nostro modo di fare sport permetteva una vita normale e offriva molte più occasioni di svago: indimenticabili le serate nelle bettole di Trastevere con Ion Tiriac, Ilie Nastase e Manolo Santana» (i suoi rivali più feroci).

Amava far amicizia con cuochi e cameriere, ma anche con re e regine, divi e dive, da Frank Sinatra a Claudia Cardinale.

L’uomo che rese il tennis pop

Negli anni Sessanta e Settanta, anche grazie a Pietrangeli, Panatta, Bertolucci e tutta la squadra, il tennis italiano diventò pop.

«Nicola possedeva un rovescio di eleganza sovrana e una facilità sconcertante nel variare con un colpo di polso effetti e traiettorie. Era una creatura dolce e un po’ indolente, capace di tutto come i bambini, curiosa, distratta, abilissima; al tempo stesso avida di vivere e insofferente alla routine. Un Peter Pan abbronzato e charmant, un giocoliere cosmopolita che con la racchetta sapeva far impazzire il mondo». Così lo descriveva Gianni Clerici. Difficile trovare parole migliori. L’ultimo saluto sarà domani 3 dicembre, alle 11, sul “Pietrangeli” del Foro Italico. Per sorridere ancora con Nick.

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