L’analisi del “cesarismo fragile” di Trump: una leadership senza regole che trasforma la diplomazia globale in ordini, minacce e interventi unilaterali
Che Donald Trump fosse un leader abrasivo, sempre pronto a riscrivere o a ignorare le regole del gioco, era qualcosa di ben noto. Eppure, tra quei vortici di notizie che stimolano la nostra disattenzione selettiva, sarebbe bene soffermarsi un momento sul mondo che l’attuale presidente degli Stati Uniti sta contribuendo in maniera decisiva a plasmare.
La cifra di questa nuova, pericolosa normalità è l’assenza di regole stabilite, anche implicite, sulla gestione del sistema internazionale. Vissute come lacciuoli fastidiosi, da cancellare in favore di uno stile decisionista e verticale che più si confà al modello di leadership trumpista. Col risultato di stravolgere irrimediabilmente l’assetto globale: non più ordine internazionale ma ordini, impartiti sempre più spesso via social con lo stile del proprietario del ristorante che a tavola si rivolge al cameriere. La decisione di chiudere lo spazio aereo del Venezuela rappresenta un esempio lampante di questo modus operandi.
PER APPROFONDIRE:
La Casa Bianca non ha alcuna legittimità giuridica né tantomeno qualche giustificazione pratica per imporre una no fly zone, un gesto che tecnicamente costituisce un atto di guerra nei confronti di Caracas.
Bombardare Paesi stranieri può forse essere giustificati quando si è in presenza di attori terroristici armati e pronti a colpire. Ma il Venezuela, pur politicamente disallineato da Washington, non costituisce in alcun modo una minaccia per gli Stati Uniti e dei suoi cittadini.
Agente del disordine internazionale
Dismessi i panni del “poliziotto del mondo”, ormai troppo pesanti da portare, Trump respinge anche quelli del vigilante – che agisce fuori dalle regole ma in ossequio a un principio d’ordine – per diventare lui stesso agente del disordine internazionale.
È una modalità che si tinge di inquietante, se pensiamo all’ordine consegnato sempre ai social dal Segretario della Guerra (ex Difesa) americano Pete Hegseth («uccideteli tutti», riferito ai narcos). La violenza colpisce senza alcuna supervisione: il presidente dà l’ok, «uccideteli tutti», e le bombe piovono sull’America Latina con il fragore delle bombe coperto solo dall’assordante silenzio attorno ai raid. E’ un triste promemoria che quando la politica si fa a colpi di tweet, la giustizia non può che essere sommaria.
Ma, a proposito di social, le minacce contro il Venezuela non sono un caso isolato. Solo il giorno prima il presidente era intervenuto a gamba tesa nelle elezioni presidenziali in Honduras: accusando il governo socialista uscente di aver trasformato il Paese in un regime comunista e in un’oasi del narcotraffico, Trump aveva intimato agli honduregni di votare per il candidato nazionalista Tito Asfura.
Per aiutarlo Trump ha annunciato la grazia all’ex presidente conservatore honduregno Juan Orlando Hernadez, condannato a 45 anni di carcere in una prigione americana per aver cercato di contrabbandare 400 tonnellate di cocaina negli Stati Uniti. Strana mossa, per un dichiarato nemico del narcotraffico. In caso contrario, Washington taglierà gli aiuti internazionali al piccolo Paese centroamericano e intraprenderà misure commerciali e securitarie per fare pressioni contro Tegucicalpa.

Il messaggio implicito è semplice: votate il mio uomo o farete la fine del Venezuela. Detto, fatto: al voto di domenica Asfura è arrivato primo, accedendo da favorito al ballottaggio contro un candidato centristra, mentre la candidata socialista è sprofondata al terzo posto.
Questo genere di azioni pongono l’Occidente (o, almeno, ciò che ne resta) in una posizione scomodamente ambigua. È difficile per la Nato denunciare le interferenze ibride della Russia nei processi elettorali europei o le violazioni degli spazi aerei del Vecchio Continente da parte dei droni, degli aerei e dei missili del Cremlino e poi guardare dall’altra parte mentre la sua potenza di riferimento minaccia gli elettori di un’altra nazione o schiera le proprie forze armate ai limiti delle acque territoriali venezuelane.
Usando peraltro un’argomentazione molto simile a quella dello Zar: questo emisfero è nostro, è il nostro cortile di casa, abbiamo diritto di farci ciò che vogliamo. Il rischio (il caso groenlandese docet) è che prima o poi questa passività possa ritorcersi contro la stessa Europa.
Il cesarismo debole di Trump

Questo atteggiamento non deve comunque trarre in inganno. Il mondo non è composto solo dagli Honduras e dai Maduro e nella giungla internazionale sopravvive meglio la tigre, che con le sue strisce sa confondersi tra le fronde, che il leone e la sua pretesa di farsi riconoscere a re della foresta.È probabile che Trump non si renda conto di quanto il suo “neo-cesarismo” diplomatico suoni più come un segno di debolezza che di forza, dimenticandosi di come lo stesso Cesare, quando gli fu offerta, rifiutò la corona di re di Roma per ben tre volte.
Quell’orpello inutile e pericoloso, sapeva il dittatore romano, non avrebbe modificato di una virgola il suo già grande potere, ma lo avrebbe esposto ai suoi nemici, come infatti poi accadde comunque.
Oggi invece Trump invoca a più riprese la medaglia del Nobel per la Pace, quasi che la medaglia dedicata all’inventore della dinamite lo consacri a quel ruolo di pacificatore trionfatore e vittorioso, quel condottiero che i latini – non a caso – chiamavano “imperator”.
È probabile che il cesarismo trumpiano serva a coprire un’agenda vuota di proposte e di pensieri, un triste susseguirsi di tattiche-slogan senza prospettiva. Ma farebbe bene a ricordarsi ciò che un suo predecessore – Abramo Lincoln – disse in circostanze non meno drammatiche di quelle odierne:
«Vedete, amico mio, voi potete ingannare tutti per qualche tempo, oppure potete ingannare alcuni per sempre, ma non potete ingannare tutti per sempre».















