L’esperto di storia militare Gregory Alegi commenta le parole dell’ammiraglio Cavo Dragone e riflette su potenzialità e limiti della Nato
Non si è fatta attendere la risposta di Mosca alle parole dell’ammiraglio Cavo Dragone (nella foto in alto), presidente del comitato militare della Nato, che in un’intervista al Financial Times parla della possibilità di una guerra ibrida più aggressiva contro i russi. Quali sono le armi di cui dispongono i paesi dell’Alleanza Atlantica? Quali i loro limiti su questo fronte?
Lo chiediamo a Gregory Alegi (nella foto sotto), esperto di storia militare e professore di Storia e politica degli Usa alla Luiss.
Professor Alegi. quelle di Cavo Dragone sono parole che rappresentano un’effettiva strategia futura dell’Alleanza Atlantica o è possibile che fossero considerazioni a titolo personale?

«Le parole del presidente del comitato militare della Nato, soprattutto in un momento difficile come questo, non possono essere considerate impressioni personali. Inoltre, una persona dell’esperienza di Cavo Dragone sapeva che le sue parole sarebbero state lette come una posizione ufficiale, non foss’altro perché le avrebbe prese sul serio il soggetto che lo ha spinto a formularle».
Cos’è la “guerra ibrida”?
«È diventato un termine molto generico. Un conto è una guerra a bassa intensità, un altro è l’uso di mezzi non militari per creare degli effetti politici. Nell’articolo del Financial Times si cita, come segno di ambiguità, la sentenza della corte finlandese che stabiliva che non erano perseguibili penalmente i russi che, tramite la loro flotta ombra, danneggiavano i cavi di fibra ottica nel Baltico. Questo perché erano acque internazionali e la Finlandia non ha giurisdizione».
Una difficoltà per la Nato contrastare la guerra ibrida di Mosca?
«Sono operazioni che spesso hanno luogo in uno spazio legale ambiguo, dove non c’è giurisdizione, e quindi il danneggiato non ha modo per difendersi, se agisce secondo le vecchie regole».
La Nato può adottare strumenti analoghi?
«Questo richiederebbe il superamento di una serie di controlli, vagli e verifiche di legalità che potrebbero non trovare tutti d’accordo. Il motivo per cui i paesi occidentali sono svantaggiati è questo: il rispetto degli ordinamenti ci rende meno pronti ad atti di guerra a bassa intensità, come il sabotaggio».
Un aspetto della guerra ibrida, penetrare nell’opinione pubblica per coltivare dissenso contro i governi.
«Quella potrebbe essere un’azione di influenza meno difficile. Ma a quel punto si fanno sentire le differenze tra le società. Su questo fronte, è inevitabile che le società aperte, democratiche, siano più vulnerabili rispetto alle società chiuse. Il nostro avversario, non essendo una democrazia, è meno esposto. L’Unione Sovietica ha retto cinquant’anni e poi è crollata più per ragioni interne che esterne. La struttura della società non è indifferente alla possibilità di guerra ibrida».
In questo tipo di conflitto essere delle democrazie liberali ci svantaggia?
«È il paradosso di Popper, quello per cui le regole della democrazia non si possono applicare nei confronti di chi vuole scardinare la democrazia stessa. Ad esempio, la sfera cyber è ideale per la guerra ibrida, soprattutto perché le operazioni in quell’ambito sono di difficile attribuzione. Ma la legge italiana vieta le operazioni cyber offensive e, che io sappia, non sono possibili deroghe. E poi c’è un altro elemento che avvantaggia la Russia…».
Quale?
«Il fatto che il livello di dipendenza dei paesi occidentali dal mondo cyber è molto più elevato rispetto a quello russo. Paradossalmente, in questi casi, i paesi meno avanzati sono avvantaggiati. La stessa cosa vale, ad esempio, per operazioni di influenza sul voto. Come si può sperare di avere un effetto concreto se le elezioni russe non sono libere?»
È verosimile che alcuni think tank, a partire dall’americana Heritage foundation, favoriscano il progetto di Mosca?
«È noto da anni che Heritage foundation ha smesso di essere un think tank per trasformarsi in un’organizzazione politica attiva. Ma il fatto di passare da qui a dire che ci sia un’organizzazione internazionale che fa capo alla Russia mi sembra si basi su una fallacia logica: post hoc, propter hoc. Diverso fu il caso del centro studi di Steve Bannon che tentò di insediarsi nel primo governo Trump, ma quello era un caso esplicito».
Prima diceva che l’Urss è crollata per cause interne. Anche contro l’Unione Sovietica si è però fatta una guerra ibrida. È possibile stabilire un’analogia con la situazione attuale?
«Sicuramente nella Guerra Fredda il soft power ha avuto un ruolo molto importante. Gli scambi culturali o misure come Radio Free Europe sono servite per mandare dei messaggi diversi rispetto a quelli diffusi internamente, anche se oggi quei messaggi arrivano in tanti altri modi. È interessante che Cavo Dragone invochi il ripristino di strumenti di questo tipo dopo che Trump li ha definanziati nei primi mesi del suo mandato. Potremmo leggere le parole dell’ammiraglio come un invito a ripotenziare strumenti che sono stati in parte smantellati. Serve però il consenso politico per farlo e la capacità di individuare nella Russia le fratture in cui incunearsi».











