Il ministro inserisce la definizione dei Lep nella bozza di legge di bilancio attualmente in discussione in Parlamento
C’è qualcosa di quasi commovente, se non fosse politicamente disastroso, nella determinazione con cui Roberto Calderoli tenta ogni volta di far entrare dalla finestra ciò che la Corte costituzionale ha già cacciato dalla porta. L’uomo dell’autonomia differenziata – o, meglio, della secessione in nome di un federalismo che odora ancora di secolo scorso – torna all’attacco infilando la definizione dei Lep nella legge di bilancio.
Un’operazione chirurgica, sì, ma fatta con un coltellino da boyscout, sperando che nessuno se ne accorga. E invece si vede benissimo.
L’ostinazione di Calderoli
Il ministro leghista agli Affari regionali sembra mosso da una sorta di devozione monastica verso il progetto di disarticolare lo Stato. Ogni volta che la Consulta gli spiega che no, non si può, che la Costituzione è un limite e non un ostacolo da aggirare, lui risponde con un nuovo stratagemma. Una fedeltà assoluta alla causa, quasi un voto laico. E infatti eccolo lì, a infilare sei articoli – 123-129 – della manovra 2026, disposizioni che di finanziario non hanno nemmeno l’odore. Norme ordinamentali pure, prive di “immediata incidenza sui saldi”, cioè esattamente ciò che la legge di bilancio non può contenere. Lo dice l’articolo 11 della legge 196/2009, lo dicono le sentenze della Corte costituzionale – dalla 22/2012 alla 241/2017 – lo dicono perfino le Presidenze delle Camere quando stralciano senza pietà tutto ciò che è fuori tema.
Una battaglia già persa
Ma Calderoli, si sa, non è tipo da lasciarsi scoraggiare dall’evidenza. C’è in lui quella ostinazione un po’ malinconica di chi non vuole accettare che la battaglia sia già finita un anno fa, con la sentenza 192/2024 che ha scritto, di fatto, il necrologio dell’autonomia differenziata versione leghista. E allora tenta l’ennesima scorciatoia. Forse per non presentarsi a mani vuote davanti agli irriducibili del Carroccio, forse per curare quella ferita mai rimarginata della “mancata secessione”. Che un giorno non si dica “non ci ha provato abbastanza”.
Le norme
Il problema, però, è che non basta volerlo. E soprattutto non basta nascondere la riforma in mezzo ai numeri del bilancio, con il leghista-amico Giorgetti che finge di girarsi dall’altra parte. Gli articoli incriminati istituiscono organismi, definiscono criteri, prevedono monitoraggi. Sono norme strutturali, programmatiche, e pure incomplete: rinviano a futuri decreti, trattano i Lep come fossero Lep e Lea mescolati alla rinfusa, prevedono finanziamenti puntuali senza aver prima stabilito i fabbisogni. Un campionario di irregolarità che nemmeno un neofita riuscirebbe a far passare come “materia finanziaria”.
Le reazioni dell’opposizione
Non stupisce, quindi, la reazione del fronte politico. Francesco Boccia, (Pd) ha definito gli articoli «un regalo alla Lega», un modo surrettizio per aggirare la Consulta. E ha chiesto senza mezzi termini di “espungere” tutto dal testo della manovra, mettendo nero su bianco alla presidenza del Senato la richiesta di stralcio. “È irregolare, sfida la Corte”, ha ripetuto, accusando il governo di fare propaganda sulla pelle delle Regioni. Ancora più dura Alleanza Verdi-Sinistra: Calderoli descritto come il “demolitore dello Stato”, Meloni come la spettatrice complice che tradisce la sua stessa idea di Nazione lasciando che la Lega porti avanti lo “spacca-Italia”. Il messaggio è chiaro: fermatelo, prima che l’ossessione diventi norma.
Il centrodestra plaude
Sul fronte opposto, invece, la controfigura di Luca Zaia, il neo-governatore del Veneto Alberto Stefani – che ancora deve essere proclamato ma parla già da presidente nel pieno delle sue funzioni – vede nell’autonomia un percorso “progressivo, graduale e irreversibile”. Un derby di narrazioni che dura da trent’anni: da una parte chi denuncia la secessione fiscale mascherata, dall’altra chi rivendica il mito del federalismo come promessa mai mantenuta.
I possibili effetti
E tuttavia, al netto delle schermaglie, il tentativo resta pericoloso. Perché se un giorno, dopo mille stop e ripartenze, la manovra dovesse davvero proteggere l’escamotage leghista, il risultato sarebbe devastante: la gestione delle risorse sanitarie affidata in toto alle regioni, la protezione civile spezzettata, le professioni non regolamentate e la previdenza complementare regionalizzate. Una frammentazione istituzionale che non ha alcun legame con la modernità, con l’uguaglianza dei cittadini, con l’idea di Paese che nel 2025 dovrebbe guardare avanti e non indietro alle cartine politiche del 1996.
Un blitz destinato a fallire
Per fortuna – diciamolo pure – questo blitz sembra destinato a fallire. Troppo netto il contrasto con la Costituzione, troppo fragile l’impalcatura giuridica, troppo smaccato il tentativo di mascherare riforme strutturali da normette contabili. E troppo evidente la solitudine di Calderoli, che porta avanti il suo vessillo con la stessa fedeltà con cui un monaco amanuense porta avanti il suo codice: anche quando sa che nessuno lo leggerà. La differenza tra fede e politica, però, è che la prima può permettersi l’inutilità. La seconda no. E l’Italia non può essere il laboratorio di un’ossessione personale.









