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È uno di quei giorni che … Il lungo addio di Milano a Ornella Vanoni

Domani e lunedì (ore 10-13) l’ultimo omaggio nella camera ardente allestita al Piccolo Teatro Grassi; i funerali lunedì alle 14.45 nella chiesa milanese di San Marco

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È uno di quei giorni che ti prende la malinconia. Citazione banale per salutare chi queste parole non banali ha saputo cantarle, come qualche centinaio d’altre, dandoti sempre i brividi. Ornella Vanoni, che è morta nella sua casa a Milano di colpo, ma non troppo a sorpresa (aveva 91 anni e bastava vederla quando era ospite a “Che tempo che fa” da Fabio Fazio per intuirne i peggioramenti fisici), riceverà oggi e domani (ore 10-13) l’ultimo omaggio nella camera ardente allestita al Piccolo Teatro Grassi; ai funerali, che si svolgeranno domani alle 14.45 nella chiesa milanese di San Marco, risuonerà la musica del trombettista jazz Paolo Fresu, secondo la richiesta che lei stessa gli fece nel maggio 2020 (e lui, racconta oggi, le rispose «va bene, ma se muoio prima io, tu devi cantare al mio»). La possibilità che il musicista sardo esegua un brano scelto da Ornella aggiunge altri brividi al commiato. D’altronde lei aveva questo di unico: dava sempre i brividi quando cantava. Che lo facesse con la voce strutturata e potente dello scorso millennio o con quella, ricca di tocchettini che sembravano quelli del pennello di un artista impressionista degli ultimi 25-30 anni. Immediata e logica conseguenza: era la donna di tutti. E per non lasciare spazio alle ambiguità, chiariamo subito questa espressione, anche se di sesso dovremo inevitabilmente scrivere. La donna di tutti in senso artistico. Tale e tanta è stata la sua attività canora che almeno una sua canzone è stata nel cuore di ognuno di noi. Più probabilmente i classici degli anni Sessanta e Settanta: “Eternità”, “Senza fine”, “Domani è un altro giorno”, “L’appuntamento”, “La voglia la pazzia l’incoscienza l’allegria”, “Io ti darò di più”. Canzoni diversissime, ballate, melodie, urlate, bossa nova, scritte spesso da autori come Paoli, Califano, Bardotti.
Il suo mondo era grande come il mondo. Ma c’è chi avrà nel cuore gli anni Ottanta in cui si mise a comporre lei stessa, con risultati come “Musica” e “Vai vai Valentina” (di un album, “2301 parole”, che vinse il Tenco). E c’è chi, forse più al Nord per meri motivi dialettali, sarà affezionato alle canzoni con cui debuttò a fine anni Cinquanta, quelle “della Mala” (e anche qui che autori: Dario Fo, Fiorenzo Carpi, Fausto Amodei, Giorgio Strehler, e anche su quest’ultimo torneremo). Racconti, spesso in milanese, di vicende di criminalità, tra furti, prostituzione e assassini, fatti passare come canti tradizionali popolari e invece fatti apposta. La più storica, però, “Ma mi”, racconta di un partigiano torturato dai fascisti per confessare, ma “mi sun de quei che parlen no”.
Ma con le canzoni “della Mala” Ornella rimase vittima del proprio talento. Era così brava e convincente a interpretare queste storie di brutture umane che una buona parte del pubblico, e di quello della tv a canale unico, iniziò a credere che stesse parlando di se stessa. In fondo è quello che dovrebbe fare un cantante, interpretare una canzone al punto di darle la vita e la faccia, oltre che la voce (l’esempio classico è Battisti, che non scrisse una parola, ma gliele attribuivano tutte). Ma lei preferì dedicarsi ad altro, soprattutto partecipazioni a trasmissioni tv e a volte anche conduzioni in prima persona. Anche perché la sua fama era già quella che era, nell’Italia anni Cinquanta, dei monocolori democristiani, dei bordelli ancora aperti e di un’occhiuta censura su qualunque cosa sembrasse sesso, incluse la calzamaglia color carne della ballerina Alba Arnova, che lasciava pensare avesse le gambe nude e che ne causò la cacciata dalla Rai. In questo clima, Ornella osò l’inosabile. Era appena stata presa alla scuola del Piccolo Teatro, dove era entrata non avendo idee sul proprio destino (sembra “Mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare”, del suo amico Luigi Tenco, che cantò anche lei, qualche volta). E si era fidanzata con il direttore e fondatore, Giorgio Strehler. Una storia che non fece scandalo per ipotetici favoritismi, ma per ben peggiori motivi: lui aveva 14 anni di più (35 a 21), era sposato, era un artista ed era un socialista, che all’epoca era circa come dire comunista.
E qui arriviamo al tema sesso. Vanoni si era fatta nel tempo una fama di mangiauomini sulla quale lei stessa giocava, ed è ancora facile ricordare, o trovare online, come ci giocò Virginia Raffaele in una delle sue migliori imitazioni, quella in cui la cantante chiedeva a chiunque se avessero fatto sesso in passato perché lei aveva poca memoria. Da notare anche il fatto che lei si divertì parecchio per questa parodia, arrivando a duettare a Sanremo con l’attrice. Ma questo libertinaggio, o banalmente libertà di vivere, era stata in buona parte vera. La cosa fece scandalo anche nei meno bacchettoni anni Settanta e nei libertini anni Ottanta. Nel 1977 la nostra arrivò a posare nuda per “Playboy” (e a chiedere in compenso non soldi, ma un’opera d’arte, una Sfera di Arnaldo Pomodoro), e ancora negli anni Ottanta, a cavallo della cinquantina, apparve tette al vento (appena rifatte) sull’Espresso. Aggiungiamoci che le sue canzoni raccontavano spesso di una donna libera, decisa, determinata, indipendente, e che la sua voce sottolineava il tutto, donando anche un erotismo intellettuale, cui non serviva neppure la nudità, e il gioco è fatto.
Ma come spesso capita a chi ha tante passioncelle, o flirt, il vero amore della vita è stato uno solo, Gino Paoli. Amore fisico, intellettuale, artistico, che si alternava all’amicizia quando uno dei due aveva qualche altra relazione, o magari si sposava o addirittura si riproduceva. Lui c’è sempre stato per lei, lei per lui. E anche in questo, volendo, è stato molto trasgressiva, per l’Italia.

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