La ritrovata vicinanza tra Putin e Trump e il negoziato sulla pace in Ucraina costringono l’Europa a guardare impotente lo svolgersi degli eventi, stretta com’è tra immobilismo e indecisione
Trump non ha più voglia di perdere tempo. La sua popolarità è così bassa negli Usa, come certificato nei giorni scorsi da un sondaggio della Fox, che finalmente può permettersi di fare tutto ciò che vuole, come ha sempre promesso di fare in nome della invulnerabilità del suo carisma. Ciò che negli anni del suo primo mandato lo aveva talvolta frenato, il timore di perdere consenso, oggi non è più un limite. Cosa ha ormai da perdere? Il carisma non ha retto all’urto spigoloso della crisi economica e ha traballato per le spinte del puritanesimo Maga.
Alle prossime elezioni di Midterm è probabile che perda la maggioranza parlamentare e che debba rassegnarsi a vivacchiare in attesa di lasciare definitivamente il comando. No, non è da lui. Per questo è da temere che stavolta il patto politico-ideologico con Putin sia infrangibile. Lui adora gli autocrati, ha detto di invidiare Xi Jinping per il suo incarico a vita («Forse dovremmo provarci anche noi» – Scherzava? Intanto cercherà di essere rieletto in un modo o nell’altro), di Kim Jong Un pensa che abbia un grande talento e che la relazione fra di loro sia molto buona. Ma sia Xi che Kim gareggiano nella squadra avversaria.
Il tentativo di corteggiare Putin
Con Putin è diverso (come, nel suo piccolo, con Orban, l’amico comune). Putin è il suo alter ego, deve fare solo un ultimo sforzo per tagliare i ponti con la Cina e partecipare alla comune grande spartizione delle terre desolate: le Americhe a Trump, l’Europa a Putin, l’Artico a metà. L’Ucraina è soltanto un inciampo, Trump ne piange ogni giorno le innocenti vittime dei bombardamenti russi, eppure sarebbe così semplice mettere subito fine questa terribile tragedia («non ne scrive ogni giorno anche quel Traveighlo di cui mi parla sempre la Zakharova?»).
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Ieri, secondo Reuters, Trump ha minacciato di tagliare la condivisione di intelligence e le forniture di armi per spingere Zelensky ad accettare l’accordo mediato dagli Stati Uniti e Zelensky ha detto (non è la prima volta ma potrebbe essere l’ultima) che il suo Paese sta affrontando «uno dei momenti più difficili della nostra storia. L’Ucraina potrebbe presto trovarsi di fronte a una scelta molto difficile. O la perdita della dignità, o il rischio di perdere un partner chiave. O i difficili 28 punti, o un inverno estremamente duro, il più duro, e ulteriori rischi».
Un quadro realistico della situazione con una sola incognita, la tenuta dell’Europa. Ormai anche ai più ottimisti o ai più riluttanti leader europei dovrebbe essere chiaro che la questione non è più se la Russia vuole continuare l’avanzata verso la parte orientale dell’Unione, ricostruendo la magnifica unità delle terre orientali che prima cercò alleandosi con Hitler e poi ottenne sconfiggendolo dopo il voltafaccia nazista.
La Russia mobilitata è un pericolo senza un “nemico”
Oggi la domanda giusta è se Putin può non farlo, dopo aver trasformato l’intera economia in una immensa fabbrica militare-industriale e aver sacrificato o cambiato radicalmente la vita di milioni di persone. Come ha scritto Francesco Strazzari sul Manifesto “la Russia dovrà fare i conti con centinaia di migliaia di giovani uomini (due milioni?) che dovrebbero essere reinseriti. Questa massa umana, plasmata strumentalmente per la guerra e dalla guerra, rappresenta una risorsa per Putin se resta mobilitata su un orizzonte ideologicamente coerente; se ripiegata sul fronte domestico viene percepita come un problema (sociale, criminale e politico)”.
Certo, Trump reinserirà la Russia nel ciclo economico globale e nel G8, ma non ne potrà cambiare l’impianto bellicista. Se l’Europa è in grado di rispondere alla nuova geografia politica che con sempre maggiore precisione si va delineando, il tempo dell’azione è ora. I primi segnali non sono confortanti, lo spirito di Monaco 1938 sembra aleggiare cupamente sulle riunioni internazionali. La notizia principale venuta ieri dalla Commissione è stata la richiesta rivolta a Trump di esentare dai dazi pasta, formaggio, vini e liquori, così come olio d’oliva e occhiali da sole.
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Non faccio sarcasmo, è la cronaca. Il governo italiano, infine, sembra aver messo definitivamente da parte la sua ambizione di far da ponte fra l’Europa e gli Usa di Trump. Come il ponte sullo Stretto neppure quello sull’Atlantico ha molta speranza di essere costruito. Meloni ha accolto con favore e con qualche riserva la lista dei 28 punti “per la pace”, ma non ha più molto da spendere. I mediatori sono fuori gioco, questo è il momento delle scelte radicali. L’Italia conta poco, si può pensare, ma non è necessariamente così.
Fu il breve governo Draghi a imprimere all’Europa, ancora “merkelizzata”, una svolta decisiva a sostegno dell’Ucraina aggredita costringendo tutti gli stati dell’Unione a pensare l’allora impensabile, rifornimenti di energia alternative alle importazioni dalla Russia. A Draghi abbiamo dovuto però rinunciare: essendo la sua grandezza di statista pari alla sua ignavia, con rispetto parlando, politica. Zelensky si arrenderà, se lo farà, con onore. L’Europa no. Le destre tumultuanti, le sinistre alienate dalla gratuità di ottanta anni pace, la stringono ai fianchi. Se cederà all’asse Trump-Putin non ci sarà che rimorso.








