Oggi il mondo non è solo Russia e America. La pace in Ucraina non risolverà la rivalità geopolitica tra Washington e Mosca
«Il lavoro effettivo dell’esercito russo dovrebbe convincere Kiev che è meglio negoziare e farlo adesso prima che sia troppo tardi». C’è in questa frase pronunciata ieri dal portavoce del Cremlino la cifra di tutto quanto stiamo vedendo nelle ultime ore dipanarsi di fronte ai nostri occhi. Non la diplomazia che informa la trattativa, ma l’uso spregiudicato della forza. Rapporti di potere che sono costruiti sul ricorso allo strumento militare, nella più cinica prosecuzione della politica con altri mezzi, come avrebbe detto Clausewitz. Giustificati dai fini, avrebbe aggiunto Machiavelli.
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Ma questa concezione non vale solo per i russi, che da tempo immemore ne hanno fatto un mantra della propria Machtpolitik, ma oggi vale anche per gli americani. La pretesa trumpista che l’Ucraina capitoli entro il Giorno del ringraziamento, giovedì prossimo, giocando così metaforicamente la parte del famoso tacchino che imbandisce le tavole americane, non è altro che il coronamento di uno stile di esercizio del potere che Trump ha impresso agli Stati Uniti dal suo ritorno alla Casa Bianca. Pare quasi un gioco delle parti.
Putin, lo Zar senza corona
Da un lato lo Zar di tutte le Russie, che si appresta a uscire dal mondo degli uomini (ormai ha 73 anni) per entrare nel pantheon mitologico russo come colui che ha rifondato il Paese rimodellandolo su una sorta di imperialismo senza corona ma che dello zarismo dei Romanov riesuma molti crismi. Ossessionato in qualche modo da questa sua missione e dal lascito storico che lascerà, al punto da dedicare ormai una parte sproporzionata dei suoi interventi pubblici (e, a quanto pare, delle conversazioni con i leader stranieri) alla storia dell’etnogenesi della Grande Madre Russia. E’ la visione di un Paese che si crede un’idea, dunque immortale, perché se si fermasse a riflettere sulla propria mortalità si renderebbe conto di poter morire.
Dall’altro il tycoon, che nella nazione patria del capitalismo ricopre già la posizione sociale più prestigiosa, quella del magnate. Anche lui impegnato nella riconfigurazione di un Paese che è sempre stato un impero che fingeva di non esserlo, almeno in quelle forme che oggi invece Trump pretende: rapporti di vassallaggio, omaggi untuosi alla propria personale, lussuosi regali… E’ un impero del Nuovo Mondo che sa già di vecchio. In qualche modo, i due “sovrani” cercano così legittimazione nell’abbraccio reciproco.
La tentazione di una nuova coesistenza egemonica
Le tentazione a riportare in auge un mondo che fu – dove Mosca era la co-capitale del mondo insieme a Washington e l’America la leader manufatturiera e conservatrice del mondo libero – è forte come quella di dividersi ancora una volta il mondo, a partire (proprio come l’ultima volta) dal Vecchio Continente. Perchè è ovvio che un accordo di tale portata, su una questione su cui entrambe le superpotenze hanno investito tanto, non potrà limitarsi a un’intesa su qualche dettaglio regionale, bensì dovrà prendere la forma – almeno a grandi linee – di un grande accordo quadro di respiro globale.
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In parte questo processo potrebbe essere già in corso: per esempio, in Medio Oriente dove a sorpresa la Russia ha prima taciuto di fronte all’attacco americano contro l’Iran, alleato di vecchia data di Mosca, e poi si è astenuta sul piano Trump per Gaza, permettendo la sua adozione in sede Onu. In cambio il Cremlino ha ottenuto la benedizione americana per restare in Siria con le proprie basi militari, rimaste esposte dopo la deposizione di Bashar al-Assad. Uno scambio che potrebbe presto andare in scena anche nei Caraibi, dove la Russia potrebbe abbandonare al suo destino il regime di Nicolas Maduro minacciato dagli Stati Uniti in una sorta di tacito riconoscimento dei propri “cortili di casa”.
Il mondo non è più quello di Yalta
Ma, attenzione, se anche russi e americani dovessero firmare un accordo di pace vincolante sarebbe pericolosamente velleitario credere di trovarsi dinnanzi a una nuova Yalta, a un’intesa strategica legata a una divisione chiara, riconoscibile e – soprattutto – riconosciuta del pianeta. In primo luogo perché, per quanto possano soffiare forti i venti nostalgici a Mosca come a Washington, la corrente va in tutt’altra direzione. Nuovi attori stanno emergendo inficiando automaticamente la pretesa bipolare russo-americana: non tanto i Paesi europei, quanto Cina, India, Turchia, arabi del Golfo…
Ma soprattutto perché è illusorio pensare che, dopo quanto successo negli ultimi anni, i rapporti russo-americani possano tornare a una condizione che non sia di sospetto, paranoia strisciante sulle infiltrazioni altrui (ibride e non) e militarismo guardingo. Euromaidan (per i russi) e l’invasione del 2022 (per gli americani) sono stati passaggi da cui non si torna più indietro. Perché, come dice un proverbio russo: «L’amicizia è come il vetro – una volta rotto, non si ripara più». Può non valere per la pace, ma per la fiducia sicuramente sì.








