Il confronto tra Yossi Beilin e Samieh Al Abed, entrambi negoziatori di lunga data lungo la linea del conflitto israelo-palestinese, sulla prospettiva di pace in Medio Oriente
In un periodo storico in cui la diplomazia sembra divenuta quasi anacronistica, travolta dall’incalzare degli eventi bellici e scavalcata dal fragore della mediaticità dirompente, la possibilità che ci possa essere spazio per un dialogo, franco, serio, in buonafede, tessuto tra due rappresentanti di popoli avversari seduti in un contesto neutrale sembra quasi fantascienza. Ma non è fiction, bensì realtà una realtà che ha nomi e cognomi concreti, quelli di Yossi Beilin e Samieh Al Abed. Li accomunano una terra, così contesa, e un mestiere, quello di aver rappresentato per molti anni il proprio popolo in politica e in diplomazia, soprattutto ai difficili tavoli di pace israelo-palestinesi. Oslo, Camp David,… sono stati presenti a tutte le occasioni mancate, tutte le distensioni poi rivelatisi solo brevi pause dello scontro tra palestinesi e israeliani. A trent’anni dall’assassinio, il 4 novembre 1995, del premier israeliano Yitzhak Rabin – che degli accordi di Oslo era stato il padrino – i due negoziatori si sono incontrati ieri a Roma per un dibattito pubblico promosso dall’associazione Sinistra per Israele e dal deputato Piero Fassino (Pd).
Negli ultimi mesi, l’opinione internazionale su Donald Trump sembra essersi completamente ribaltata, siamo passati dal famigerato video del resort a Gaza al piano di pace di Trump. So che entrambi siete stati negoziatori di primo piano negli anni ’90, durante i negoziati di Oslo e di Camp David. Qual è la vostra opinione su questa ultima proposta americana, ci sono dei punti che pensate possano essere migliorati o modificati per il bene della stabilità della regione?
BEILIN: «Sa, e lo dico come qualcuno che non voterebbe mai per una persona come Trump in nessun luogo del mondo, devo ammettere che la sua ultima proposta, la risoluzione alle Nazioni Unite, è stata impressionante. E la sua capacità di ottenere il sostegno di tutti è davvero una grande sorpresa per me. Specialmente perché sta parlando dello Stato palestinese, sta parlando dell’Autorità Palestinese, parla delle due fasi, e una di queste è stata quasi completata, il rilascio di tutti gli ostaggi e il cessate il fuoco. Quindi dico che chiunque porti risultati del genere è benedetto».
AL ABED: «Dobbiamo guardare a tutto questo in modo positivo, prima di tutto.Ma dalla nostra esperienza, l’esperienza palestinese, la prima mossa del signor Trump, quello che definì “l’accordo del secolo” [gli Accordi di Abramo firmati nel 2020, ndr], purtroppo non fu davvero una buona cosa per noi. Disse [agli israeliani, ndr]: Gerusalemme è vostra, prendetela. Il Golan è vostro, prendetelo. Per cui eravamo molto scettici su ciò che aveva in mente, sulla risoluzione attuale. Cosa è diverso da prima? Penso che questa volta ci sia stato un maggiore coinvolgimento regionale e anche un maggiore coinvolgimento internazionale, per cui dobbiamo cercare di guardarla in modo positivo, nonostante la mancanza di dettagli e la presenza di molte questioni poco chiare. Forse nel complesso Trump ha cercato di trovare un compromesso tra tutte le parti, regalando qualche frase che potesse accontentare Netanyahu, qualche frase per accontentare l’Autorità Palestinese, accontentare i qatarioti, i sauditi e tutti altri. Il che va bene, come uomo politico va bene. Ma ciò che è necessario ora dalla comunità internazionale e da coloro che sostengono la “soluzione dei due Stati” è di spingere per cercare di colmare le lacune, qualunque esse siano. Ecco perché siamo ottimisti, se riusciamo a far convergere tutto il sostegno regionale e internazionale»
La Comunità Internazionale e il suo ruolo
Avete citato il coinvolgimento internazionale nel processo di pace, si parla molto della forza internazionale di stabilizzazione per la Striscia di Gaza. Anche l’Italia ha offerto, come in passato, il suo sostegno a questa soluzione. Ma abbiamo un modello simile in Libano, le forze Unifil, la missione di peacekeeping nelle Nazioni Unite, che tuttavia non è riuscita a prevenire lo scoppio del conflitto tra Israele e Hezbollah. Ritenete ci si possa fidare che questa forza internazionale si riveli in grado di mantenere una pace efficace a Gaza dopo così tanta violenza?
BEILIN: «Dovrebbe avere un mandato diverso. Se avesse lo stesso mandato dell’Unifil, non servirebbe a nulla. Il mandato della forza di stabilizzazione dovrebbe prevedere il permesso di usare le armi per prevenire il terrorismo. Se accade questo, allora si tratterà di un’iniziativa molto diversa. Io sostengo il coinvolgimento internazionale. Sicuramente abbiamo bisogno di una terza parte. Ma abbiamo anche bisogno di un mandato diverso».
AL ABED: «Penso che la cosa più importante, ogni volta che arriviamo a un accordo tra due parti, sia assicurarsi che tutto ciò che è scritto nell’accordo venga implementato. E almeno quando proponiamo qualsiasi proposta composta da determinati passi, dobbiamo essere certi che quei passi possano essere implementati o meno. Non è chiaro cosa la forza di peacekeeping possa fare e cosa non possa fare. A volte sentiamo nelle notizie che l’esercito israeliano spara alle forze Unifil in Libano. A Gaza chi impedirà loro di farlo? A meno che l’accordo non sia davvero solido. In caso contrario, continueremo a guardare chi ha lanciato una bomba prima, chi ha sparato per primo e così via. Il mandato quindi deve essere chiaro per tutte le parti e non dare vantaggi a una parte sull’altra. E queste forze internazionali o regionali che saranno a Gaza, devono avere un mandato chiaro su ciò che possono fare e non fare. E chiunque faccia qualcosa di sbagliato, qualcuno deve – non punirlo – ma almeno dirgli di fermarsi. Credo sia questo ciò che serve. Cose più specifiche su ciò che dovrebbero fare e su come sistemare le cose: mantenere l’ordine pubblico a Gaza; addestrare i poliziotti palestinesi; proteggere Gaza da chiunque voglia invaderla. Quella della forza di pace, con un mandato chiaro, è una soluzione che va bene per noi. E penso sarebbe una lezione per altre aree».
BEILIN: «In effetti penso che ne abbiamo bisogno anche in Cisgiordania, senza dubbio».
Si riferisce alla questione dei coloni in Cisgiordania
BEILIN: «Sì, è una soluzione che sarebbe utile in vista di una soluzione complessiva israelo-palestinese, non solo su Gaza. La forza internazionale fu già proposta ai palestinesi ai colloqui di Camp David del 2000. La destra in Israele è da sempre contro qualsiasi tipo di intervento internazionale. Perché non vogliono un accordo, non vogliono dividere la terra. E come risultato dicono no a qualsiasi idea, compresa l’idea delle forze internazionali. Ma sono d’accordo al 100% [con Al Abed, ndr]. Abbiamo bisogno di forze internazionali lì. Sappiamo che comporterà dei problemi, sappiamo che comporterà delle difficoltà, ma almeno per diversi anni avremo bisogno di una terza parte».
Il fragile equilibrio tra Israele e i suoi vicini
Parlando del ruolo internazionale nel processo di pace, per ottenere questa proposta gli Stati Uniti sembrano aver lasciato uno spazio politico più ampio ai propri partner mediorientali: Turchia, Qatar, Arabia Saudita,… Ma, a ogni passo del processo, Israele ha manifestato la sua ferma opposizione: al coinvolgimento della Turchia, per esempio, nella Striscia di Gaza, o alla vendita di F-35 all’Arabia Saudita pochi giorni fa, o ancora alla mediazione del Qatar, che è stato bombardato durante il recente conflitto. Ovviamente Israele ha storiche preoccupazioni di sicurezza riguardo il possibile rafforzamento delle potenze mediorientali. È possibile quindi conciliare le preoccupazioni di sicurezza di Israele con la necessità che i paesi musulmani svolgano un ruolo più importante nel processo di pace?
AL ABED: «Bisogna essere chiari: gli israeliani credono di avere il potere di conquistare qualsiasi paese del Medio Oriente. Perché hanno il potere militare e hanno il sostegno della comunità internazionale e degli americani. Anche quando in passato hanno fatto qualcosa di sbagliato, si è sempre trovata una scusa per Israele. Credo, non sono sicuro, ma credo che oggi le cose siano cambiate, esattamente per quello che è accaduto. Intendo dire che andare in Qatar e cercare di uccidere membri di Hamas lì, aggredire così un altro Paese sovrano, solo perché hai il potere e gli aerei per farlo… Penso che ora l’intera comunità internazionale, anche gli americani, stiano iniziando a pensarla diversamente: come ha detto Trump, non puoi combattere contro tutto il mondo, non più. Credo che ora, forse, con la giusta leadership, gli israeliani potrebbero guardare in modo positivo a soluzioni per porre fine al conflitto. Ma dobbiamo guardare all’iniziativa di Trump non solo nell’ottica della sicurezza, sicurezza, sicurezza. Sicurezza significa avere molte armi per uccidere e distruggere. Bisogna pensarci in un modo diverso. Abbiamo già visto cosa conduce questo ragionamento: per esempio, nessun Paese arabo dispone di armi nucleari, ma Israele le ha. C’è una grande differenza tra avere prosperità in tutto il Medio Oriente e farne parte e poterne godere dei propri, questo sarebbe molto più vantaggioso per palestinesi e israeliani. Noi vogliamo il nostro stato, la nostra dignità, il nostro territorio, la nostra libertà, e un futuro migliore per i nostri figli e nipoti. Questo chiediamo».
BEILIN: «Credo che Israele debba far parte dei paesi che decideranno quali forze internazionali interverranno. Riguardo al Qatar, non credo che abbiano forze proprie. Parliamo di un Paese con meno di 300.000 cittadini. Non so se sono pronti a mandare le loro forze. Certo, pagare per altri è un’altra cosa, ma dobbiamo sapere chi sono questi altri. Per quanto riguarda la Turchia, è successo qualcosa di molto negativo nei rapporti tra Israele e Turchia. Non riesco nemmeno spiegarmelo. Erdogan oggi parla come un antisemita, è molto problematico ascoltarlo anche per qualcuno come me. Non può presentarsi come una forza neutrale. Spero che questo cambi in futuro, anche perché in passato ci sono stati periodi in cui avevamo buone relazioni e lui stesso era molto più gentile con Israele. Ma al momento attuale sarebbe molto difficile per Israele avere forze turche ai propri confini. Tuttavia, credo che possiamo trovare forze musulmane o arabe nella regione che siano pronte a entrare a Gaza e ad aiutare entrambe le parti a garantire che non scoppi la violenza».
Pochi giorni fa, è stato chiesto all’Arabia Saudita di entrare nei famosi Accordi di Abramo con gli Stati Uniti e Israele. Ma, secondo la stampa, i sauditi hanno rifiutato dicendo che non è possibile normalizzare le relazioni con Israele finché l’attuale governo Netanyahu rimarrà al potere. E’ possibile fare passi credibili nel processo di pace con Netanyahu e l’attuale coalizione di governo israeliana?
BEILIN: «No. Sono apertamente contrari ad avere la pace con i palestinesi. Non è una situazione in cui dicono: ‘Sapete, vogliamo davvero la pace. Abbiamo fatto tutto il possibile, ma l’altra parte non vuole’. Non vogliono la pace con i palestinesi perché significherebbe la divisione della terra. Quindi non c’è bisogno che lo dica io, sono loro stessi a testimoniare che con loro è impossibile fare la pace».
La crisi di fiducia tra Israele e i palestinesi
Qualche tempo fa un diplomatico arabo ha detto: “Hamas avrà tunnel fino a quando Israele avrà i bombardieri.” Sembra che alla base di questa crisi ci sia una crisi di fiducia tra palestinesi e israeliani. È possibile, dopo tutta questa brutalizzazione — e sto parlando dagli attacchi del 7 ottobre fino alle recenti operazioni militari a Gaza, naturalmente — avere un dialogo sano affinché un giorno, forse non oggi, forse non domani, ma nel prossimo futuro, tra Palestina e Israele, che possa portare a una vera stabilità e a un futuro sano per entrambi i popoli?
AL ABED: «Sono d’accordo, sono loro che non vogliono fare la pace. Vogliono la normalizzazione senza fare la pace con i palestinesi e mantenere lo status quo dell’occupazione, permettendo l’espansione continua delle colonie. Questo non può accadere, nessuno lo accetterà. Penso che la posizione saudita sia giusta e abbiamo bisogno del loro aiuto e sostegno per mantenere questa posizione finché non avremo qualcosa di diverso. E’ nell’interesse di entrambi, palestinesi e israeliani. Perché non appena avremo la pace e finirà l’occupazione, allora sì, avranno la normalizzazione ovunque. Ma, con questo governo, trovo quasi impossibile che accada qualcosa».
BEILIN: «Sì, una tale possibilità esiste. Sappiamo come negoziare tra noi, ci conosciamo, e se disponi di una leadership pronta alla pace da entrambe le parti, avrai la pace. Non c’è dubbio. E poi c’è la proposta per una confederazione…»
Che lei fece nel 2015, se ricordo bene…
BEILIN: «Sì, nel 2015 ne scrissi per la prima volta. Ci abbiamo lavorato, palestinesi e israeliani, sul lato palestinese c’era Hiba Husseini. Abbiamo pubblicato un libro a riguardo. L’idea è che la questione delle colonie non continui a essere il più grande ostacolo alla pace. Perché quei coloni che vorranno rimanere in Palestina una volta che lo Stato palestinese sarà istituito potranno farlo con il doppio status di cittadini israeliani e residenti permanenti palestinesi. E lo stesso numero di cittadini palestinesi potrà, allo stesso modo, essere residente permanente in Israele. Se fai questo, risolvi il problema più grande sul tavolo e penso che potrai finalmente avere la pace. Perché ciò che è accaduto a persone come noi è che negli ultimi 32 anni abbiamo investito ore, giorni, mesi, all’infinito, nel proporre soluzioni per tutte le questioni rimaste aperte tra israeliani e palestinesi: i rifugiati, l’acqua, l’ambiente, le frontiere, la sicurezza, i rifugiati… Come ho detto, ci abbiamo scritto un libro. Abbiamo 500 pagine dell’Iniziativa di Ginevra. Abbiamo 500 pagine di allegati. Quindi se ci sono persone da entrambe le parti pronte a pagare il prezzo della pace sia possibile e penso che dal lato palestinese ci sia una persona che non è giovane, ma è totalmente impegnata per la pace. Ed è un buon interlocutore per noi».
Parla del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Abu Mazen?
BEILIN: «Sì, se domani avessimo un governo diverso in Israele disposto a parlare con Abu Mazen e non a chiamarlo terrorista, potremmo avere la pace non tra generazioni, ma forse in un anno. E sto esagerando. I dossier sono già pronti. Paradossalmente non era così nel 1995, quando Rabin venne assassinato. Ma da allora non siamo rimasti inattivi, siamo pronti per il giorno in cui i colloqui riprenderanno. Perché sappiamo che se davvero credi nella pace, la pace arriverà. Se non ci credi, qualsiasi cosa può diventare un ostacolo».
AL ABED: «Sono assolutamente d’accordo con lei. Sottoscrivo pienamente, abbiamo tutti gli elementi per raggiungere un accordo, è solo questione di leadership disposta a farlo. Purtroppo, credo che dopo l’uccisione di Rabin, abbiano ucciso anche Oslo e ancora oggi ne paghiamo con le conseguenze. Del resto, Netanyahu si oppose a Oslo dal primo giorno, dunque con lui non c’è nessuna possibilità di raggiungere alcun accordo, né con la sua coalizione. Dobbiamo aspettare e vedere il risultato delle elezioni in Israele, l’anno prossimo. Dal nostro lato, siamo già impegnati e pronti a discutere delle possibili alternative. Quella dello scambio di popolazioni, per esempio, è una alternativa, si può considerare e vedere come implementarla. Ecco perché diciamo che il coinvolgimento internazionale e regionale è la chiave, serve una certa pressione. Non necessariamente un accordo soddisferà le nostre ambizioni, né quelle degli israeliani, ma almeno sarebbe qualcosa con cui si possa vivere. Questo, penso, è l’unico modo per raggiungere un accordo ora. O trovando leader politici che possano accettarlo o con la pressione internazionale e regionale. Ora è il momento di farlo gradualmente insieme, su ciò che accade a Gaza e in Cisgiordania. I piani sono pronti, servono i decisori Per questo invitiamo l’Italia, prima di tutto, a riconoscere lo Stato di Palestina e unirsi agli altri Stati europei. Questo darebbe una spinta. E la stessa Ue dovrebbe fornire il sostegno politico, non solo economico. E il loro peso, insieme agli Stati Uniti e ad altri Paesi, potrebbe far accadere tutto questo».








