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Caporalato e colonialismo, le lotte dell’attivista Diletta Bellotti

Una storia di ribellione intrapresa a partire dalla lotta alla schiavitù nei campi

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Resistenza, protesta, ribellione: sono parole confinanti tra di loro, ma hanno in comune la necessità di essere, nel mondo contemporaneo, rimesse al centro dei diritti del cittadino. O forse al centro dei nostri doveri: è un’altra nozione un po’ logora, quella del dovere, che tende a essere confinata troppo spesso in un perimetro odioso e stancante. Al contrario, il diritto di ribellarsi e il dovere di protestare potrebbero diventare un elemento gioioso e ispirante, al di là dell’argomento spesso lugubre contro il quale la protesta deve sollevarsi.

Questione non solo ispirante, ma molto urgente, in un novembre romano che ricorda più giugno che l’inverno.
Ne parla fra l’altro, nei suoi libri e nella sua vita, Diletta Bellotti, giovane ricercatrice e scrittrice che qualche anno fa, finiti gli studi, ha deciso di dedicarsi a protesta e ribellione. A partire da una protesta che aveva al centro una sorta di pietra angolare del sostentamento italiano: il pomodoro.

Militanza e attivismo

«La mia storia di militanza e attivismo – racconta Bellotti – inizia con la lotta contro il caporalato. Nel 2018 ero a Bruxelles, studiavo le migrazioni, e mi sono specializzata proprio su quell’argomento con una tesi sul primo movimento bracciantile portato avanti da persone con background migrante, cioè quello di Nardò del 2011, che ha portato poi alla legge contro il caporalato. Analizzando quella questione me ne sono interessata e ho iniziato a parlarne e a scriverne. E poi a collaborare con “No Cap”, l’associazione fondata da Yvan Sagnet, uno dei leader di quel movimento».

Diletta decide di verificare di persona, e nell’estate del 2019 si trasferisce per qualche settimana nell’insediamento spontaneo di Borgo Mezzanone, in Puglia, la più grande baraccopoli d’Europa, abitata prevalentemente da migranti, prevalentemente assoggettati al caporalato. Dall’esperienza è derivata una campagna di protesta e sensibilizzazione, “Pomodori rosso sangue”: una giovane donna, vestita con un drappo tricolore, addenta un pomodoro che nella performance sembra sanguinare. L’obiettivo, ha spiegato la stessa Bellotti, è «suscitare disgusto nei consumatori, cercando quindi di trasformare un ribrezzo individuale in una mobilitazione collettiva». “Pomodori rosso sangue” di recente è anche diventato un libro (ed. Nottetempo) nel quale il fenomeno del caporalato viene raccontato e discusso anche riportando l’esperienza dell’autrice a Borgo Mezzanone.

Con gli anni lo spettro dell’impegno di Diletta si è allargato ad altri argomenti, intrecciati col punto di partenza, fra cui la questione ambientale, problema sul quale una sensibilizzazione sembra esserci, ma che si presta anche a confusione e inquinamento. Chiediamo proprio a lei, allora, di condividere con noi qualcuno dei suoi riferimenti: «Ci sono tantissimi movimenti che si occupano della questione climatica in tutte le sue declinazioni. Io trovo interessante la questione del sabotaggio alle grandi opere inutili, spesso liquidato da molta stampa e opinione pubblica come ecoterrorismo, e il lavoro che sta facendo in Germania Ende Gelände e in Francia Les soulèvements de la Terre.


”Sono due organizzazioni di disobbedienza civile intesi a sensibilizzare e costruire una rete globale tramite azioni concrete, come ad esempio l’occupazione delle miniere di carbone in Germania e altre parti d’Europa, e una generale ispirazione di intervento concreto in situazioni di particolare allarme ambientale (anche le grandi navi in Laguna a Venezia, per dirne un’altra). Il confine attivismo e teppismo, la confusione fra protesta e prevaricazione sono argomenti molto delicati, in grado di influenzare ampiamente l’opinione pubblica, e indurre nel cittadino paura e lontananza rispetto non solo a chi si ribella, ma proprio rispetto agli argomenti stessi della ribellione».

Crisi climatica e colonialismo

«La crisi climatica sta portando alla fine del mondo – ci rammenta Diletta – e le condizioni materiali in cui ci troviamo sono una delle cause per cui si fatica a organizzare una linea abbastanza solida per cambiare il sistema economico e politico che sta portando alla catastrofe».

In quest’ottica sembra di poter individuare una radice comune a varie proteste, anche su argomenti apparentemente lontani fra loro, come potrebbero essere la sicurezza sul lavoro, gli allevamenti intensivi e disarmo: «Chi protesta si riferisce spesso a una matrice comune di base a questi e altri argomenti, che principalmente è quella del colonialismo, nell’ambito del quale questi sistemi di oppressione si muovono. Non si può parlare di sopravvivenza sul pianeta Terra senza pensare alla fine del capitalismo che, nella sua attuale declinazione, prevede la nostra estinzione, non solo a livello di risorse ma anche del nostro modo di pensare e organizzarci».

Parole forti? Forse servono. Nel 2021 Diletta Bellotti ha pubblicato, con De Agostini, un vero e proprio manuale di attivismo, “The Rebel Toolkit. Guida alla tua rivoluzione”. Pensato per i giovanissimi, il libro è una “cassetta degli attrezzi per ribelli” in grado di fornire strumenti e ispirazione anche agli adulti che vogliano confrontarsi con la propria possibilità di protestare, a volte esistente magari, ma sopita.

Ecologia: governi e individui

Ma è possibile conciliare la protesta con i propri comportamenti privati? Diletta anche qui parla chiaro: «In senso ecologico la colpa privata, individuale, consumistica è in gran parte una narrazione di grandi corporazioni del fossile che scaricano molti problemi sui cittadini e sui comportamenti individuali. Un gigantesco problema delle democrazie contemporanee è quello di aver sovrapposto il concetto di consumatore a quello di cittadino. E noi dovremmo in primo luogo rifiutare questo tipo di identificazione».

Chi inquina, allora? «Di certo non siamo noi: possiamo supportare, sì, delle realtà più coerenti con il proprio sentire etico e morale, però la gente comune non ha quasi nessuna possibilità di smuovere il mercato se non attraverso un boicottaggio. E servono sanzioni, grandi campagne, come quella di Bds, Boycott, Divestment and Sanctions, movimento che tramite questi strumenti intende contrastare la politica territoriale, militare ed economica nei territori occupati palestinesi, di Israele e di tutte quelle realtà che nel mondo la sostengono». C’è molto da fare, per chi decide di ribellarsi, e possiamo ancora decidere se farlo o no, un lusso che prima o poi rischiamo di rimpiangere.

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