Il Segretario della Difesa degli Stati Uniti Pete Hegseth ha annunciato l’operazione Southern Spear (Lancia del Sud). Secondo il capo del Pentagono, l’obiettivo è difendere «la patria, rimuovere i narco-terroristi dall’emisfero occidentale e fermare il flusso di droghe che uccide i nostri cittadini». Non è chiaro se la dichiarazione di Hegseth rappresenti l’avvio di una nuova e più estesa operazione militare americana, oppure se sia stata rinominata quella già in corso.
Ciò che è certo è che le parole del Segretario della Difesa sono state pronunciate mentre la concentrazione di assetti bellici statunitensi nei pressi del Venezuela raggiungeva l’apice. Martedì 11 novembre la portaerei USS Gerald Ford è entrata con il suo gruppo da battaglia nell’area di competenza del Comando Meridionale (SOUTHCOM) del Pentagono, responsabile dell’America Latina.
La Ford si aggiunge ai numerosi mezzi aerei e navali già presenti: otto navi di superficie, un sottomarino a propulsione nucleare, caccia F/A-18 ed F-35, aerei da attacco al suolo AC-130 Ghostrider e droni MQ-9 Reaper. Complessivamente sono dispiegati circa 10 mila militari americani. Ufficialmente le forze statunitensi stanno conducendo operazioni di interdizione marittima per bloccare le imbarcazioni dei narco-trafficanti che trasportano carichi di droga diretti verso gli Stati Uniti.
Negli attacchi delle ultime settimane sono stati uccisi circa 80 individui, che secondo Washington erano legati ai cartelli della droga, senza però fornire prove. Oltre alle giustificazioni retoriche, il numero di forze dispiegate – il più alto dall’invasione di Panama del 1989 – è nettamente superiore a quanto necessario per condurre raid isolati contro le imbarcazioni dei narco-trafficanti. Attualmente al largo delle coste venezuelane è presente il 10% della U.S. Navy.
Di fatto, la concentrazione di assetti aero-navali sembra puntare soprattutto ad aumentare la pressione americana sul regime di Nicolás Maduro, più che a combattere i narcos. Da settembre, e in misura crescente nell’ultimo mese, l’amministrazione Trump ha posto le condizioni per un’escalation contro Caracas. In primo luogo, Washington ha definito Maduro e i vertici militari venezuelani come leader del Cártel de los Soles.
Una mossa che, seguendo la politica dell’esecutivo statunitense – che classifica i cartelli come organizzazioni terroristiche – potrebbe giustificarne l’eliminazione, poiché i vertici dell’amministrazione hanno elaborato la categoria del “combattente illegale” (unlawful combatant) per legittimare operazioni di omicidi mirati extra-giudiziari contro i narcos. Poi, Trump ha autorizzato la CIA a condurre operazioni clandestine in Venezuela.
Nel frattempo, il regime di Maduro tenta di introdurre contromisure. Sul piano propagandistico, l’autocrate venezuelano si è rivolto direttamente a Trump attraverso dichiarazioni rilasciate alla Cnn, chiedendo agli Stati Uniti di cessare le azioni ostili contro Caracas. Sul piano operativo, invece, il Venezuela ha predisposto alcune misure da attuare in caso di attacco americano.
Le forze armate venezuelane non avrebbero alcuna possibilità di contrastare gli Stati Uniti in uno scontro convenzionale, soprattutto a causa dell’obsolescenza degli equipaggiamenti e del basso morale del personale. Di conseguenza, secondo Reuters gli apparati venezuelani starebbero lavorando su due piani: il primo prevede azioni di guerriglia per sabotare le operazioni statunitensi; il secondo è lo scenario di “anarchizzazione”, cioè la creazione deliberata di caos nelle strade per rendere il paese ingovernabile da qualsiasi forza esterna. Resta però da valutare il vero obiettivo dell’amministrazione Trump.
A questo proposito emergono alcuni elementi. Sul piano politico, si registra una divisione tra chi sostiene un intervento per rovesciare il regime e chi invece preferisce una linea più cauta. I primi sono guidati dal Segretario di Stato Marco Rubio, sostenitore di una riaffermazione muscolare della primazia statunitense nell’emisfero occidentale.
Tra i più prudenti spicca Richard Grenell, molto vicino a Trump, che ha negoziato direttamente con Maduro per conto del presidente. Sul piano operativo, comunque, un’invasione via terra appare improbabile, a giudicare dal numero di militari dispiegati. Per un paragone storico, quando gli Usa invasero Panama nel 1989 – un teatro di operazioni molto meno complesso rispetto al Venezuela – impiegarono circa 28 mila uomini.
Inoltre, il regime panamense di Manuel Noriega era molto meno radicato di quello chavista. Secondo diverse indiscrezioni, però, l’amministrazione Trump avrebbe già rifiutato alcune proposte negoziali di Maduro, tra cui una che prevedeva l’uscita di scena del leader venezuelano. Ne consegue che l’obiettivo di Washington sembra essere quello di mettere Maduro all’angolo con un massiccio dispiegamento di forze per costringerlo a rinunciare al potere, oppure favorire un golpe o una rivolta militare.
Ulteriori azioni potrebbero includere attacchi mirati per decapitare il governo venezuelano attraverso bombardamenti di precisione o operazioni speciali. Tutto ciò si inserisce nella volontà dell’attuale amministrazione di riaffermare aggressivamente la Dottrina Monroe. Di conseguenza, sul piano geopolitico, i destinatari ultimi della pressione sul Venezuela sono sia gli altri Stati della regione, sia i rivali eurasiatici degli Usa (Russia e Cina in primis).
Il messaggio di Washington è che non verranno tollerate sfide alla supremazia statunitense nelle Americhe. Non è però chiaro l’endgame perseguito dall’amministrazione Trump. Il regime chavista è infatti profondamente radicato negli apparati di sicurezza. Anche se Maduro venisse rovesciato, il sistema di potere da lui presieduto potrebbe sopravvivere. E qualora l’opposizione cercasse di instaurare un ordine alternativo, gli apparati militari fedeli al chavismo potrebbero ribellarsi, facendo scivolare il paese nel caos.









