Nel 2023 i CAV attivi in Italia erano 404 e 464 le Case rifugio, ma con forti squilibri territoriali
In Italia, la violenza di genere non è – come spesso è stata definita – un’emergenza. Esiste infatti una dinamica sociale consolidata per cui, di fronte al ripetersi di episodi di violenza, si tende a rispondere con una logica emergenziale. Sebbene questo approccio possa servire a catalizzare l’attenzione del pubblico, è tuttavia scorretto.
La violenza di genere, a qualsiasi livello, non è un’emergenza, bensì un problema strutturale e culturale, ben radicato all’interno di dinamiche sociali, che richiederebbe pertanto interventi strutturali, prevenzione ed educazione sul tema, politiche integrate e una stretta cooperazione tra istituzioni, servizi e comunità locali.
Pochi i luoghi per l’accoglienza
Tra i tanti problemi che si legano a questo tema, vi è appunto la presenza (o assenza) di luoghi in cui una donna può essere accolta, creduta e accompagnata, e dove la protezione si traduce in azioni che restituiscono autonomia e dignità alla persona.
Non tutte le città e non tutti i territori, offrono infatti le stesse possibilità. Nel nostro Paese esistono regioni dove la rete dei centri antiviolenza (CAV) è capillare, ed altre in cui l’accesso alla protezione è, invece, ancora un percorso tortuoso. Secondo i dati forniti dall’Istat e dal Dipartimento per le Pari Opportunità, nel 2023 erano attivi in Italia 404 centri antiviolenza e 464 le Case rifugio, ma con forti squilibri territoriali.
I dati mostrano anche che nei territori del Sud e nelle aree rurali l’accesso ai centri antiviolenza è più limitato, con un’offerta inferiore rispetto alla media nazionale e una maggiore presenza di strutture con risorse ridotte o volontariato. Secondo i numeri recenti, la quota media nei territori del Sud risulta inferiore a 0,20 centri antiviolenza ogni 10.000 donne, mentre nelle regioni del Centro Italia è molto superiore.
Un servizio affidato ai volontari

Ma non si tratta solo di numeri. La legge nazionale n. 119 del 2013, che ha istituito il Piano antiviolenza, stabilisce che ogni regione debba garantire servizi diffusi, coordinati e finanziati stabilmente. Tuttavia, come spesso accade, la distanza tra il principio e la realtà è ampia, e molte strutture restano precarie, senza fondi certi, spesso dipendenti da bandi annuali. Il personale lavora frequentemente in condizioni di instabilità cronica, mentre la formazione specifica – elemento fondamentale per un’accoglienza competente – non è ancora garantita ovunque.
Al netto della situazione nazionale, è bene ricordare che, tuttavia, un centro antiviolenza non è un servizio qualunque. Destrutturare la violenza di genere richiede certamente un approccio sensibile e una solida rete di sostegno per le vittime, ma la prevenzione si basa altresì su una comprensione più ampia e consapevole di questo fenomeno da parte della società a tutti i suoi livelli, ed i centri antiviolenza risultano importanti catalizzatori per questo processo. Si tratta infatti di luoghi dove una donna può tornare a essere soggetto, dopo essere stata oggetto di violenza. L’accompagnamento, del resto, non si espleta neppure solo con percorsi psicologici e legali, ma anche con strumenti concreti, quali il sostegno abitativo, assistenza economica, reinserimento lavorativo, protezione per i figli.
L’esempio: Emilia-Romagna e Toscana
Negli ultimi anni, alcune regioni hanno anche sperimentato modelli innovativi di collaborazione tra pubblico e privato sociale. L’Emilia-Romagna e la Toscana, ad esempio, hanno creato sistemi integrati tra centri antiviolenza, servizi sociali e strutture sanitarie, introducendo altresì protocolli che consentono agli operatori sanitari di riconoscere precocemente i segnali di abuso e attivare la rete di supporto.
Altre esperienze – come il progetto “Reama” di ActionAid o la rete “D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza” – mostrano invece come il lavoro di rete possa diventare una forma di resistenza quotidiana, soprattutto nei territori più isolati. La capillarità, che sembra fondamentale, tuttavia non è comunque sufficiente. La violenza non si combatte solo moltiplicando le sedi, ma soprattutto garantendo continuità, formazione e tutela per chi lavora in prima linea. Chi lavora nei centri antiviolenza racconta di carichi insostenibili, precarietà lavorativa e mancanza di riconoscimento istituzionale. E questo dato trasmette un paradosso evidente, in cui a prendersi cura della vulnerabilità, spesso, sono persone anch’esse esposte a forme di precarietà strutturale.
Un sistema che non tutela chi accoglie, finisce tuttavia per indebolire anche chi viene accolto. Il problema, allora, non è soltanto quanti centri esistono, ma quanto funzionano, quanto sono accessibili, quanto sono messi in condizione di svolgere davvero la loro funzione. Se un centro antiviolenza non è un servizio di emergenza, è invece un presidio di cittadinanza. La violenza di genere, infatti, non finisce con la denuncia, ma quando esiste una rete culturale in grado di restituire autonomia.
La violenza non è una questione privata, ma un tema collettivo, e una società si misura anche da quanto riesce a proteggere chi la abita.
Una donna su tre non sa a chi rivolgersi

Oggi in Italia, una donna su tre che subisce violenza non sa a chi rivolgersi, e questo dato – forse più di ogni altro – mostra la distanza tra la legge e la vita reale. Di certo, finché la cultura della prevenzione e del rispetto non entrerà stabilmente nelle scuole, nei media, nei linguaggi quotidiani, ogni centro resterà una risposta necessaria ma parziale.









