Come non si deve raccontare la separazione delle carriere: editoriale sulla controversa intervista del ministro Carlo Nordio e sul vero significato della riforma della giustizia
Un noto guardasigilli della Prima Repubblica, in una recente trasmissione televisiva, ha invocato il ripristino del giudice istruttore del vecchio rito inquisitorio, e non la separazione delle carriere, come rimedio efficace per contenere lo strapotere dei pubblici ministeri. Questo richiamo novecentesco mi ha riportato a un episodio dei primi anni Ottanta.
Ricordo che a Lecce, dove muovevo i primi passi nel giornalismo, un pio professore di educazione artistica fu arrestato senza neanche un interrogatorio dal pretore – allora titolare di questa competenza nei casi urgenti – con l’accusa terribile di aver stuprato e messo incinta una scolara dodicenne in un istituto gestito dalle suore. La notizia suscitò scandalo per il luogo in cui avveniva – il collegio era frequentato per lo più da orfani – e per la figura dell’imputato, fino a quel momento considerato un irreprensibile insegnante, conosciuto negli ambienti della curia per la sua devozione.
Fu proprio il giudice istruttore a scarcerare il professore, prosciogliendolo poi dall’infamante accusa dopo cinque giorni di detenzione. Nel frattempo lo aveva interrogato, aveva messo alle strette la ragazzina e ottenuto da lei la versione reale dei fatti: quella gravidanza, ormai giunta al settimo mese, era frutto di un amorazzo precoce con un compagno di scuola, dodicenne anche lui.
Questo per dire che il giudice istruttore era, di fatto, una garanzia per l’innocente, prevista dal sistema inquisitorio dell’epoca, ereditato dal regime fascista. Quel magistrato assommava su di sé la potestà di incriminare e allo stesso tempo di prosciogliere, incarnando la figura autoritativa e paternalista di uno Stato con il quale il cittadino poteva confrontarsi solo guardandolo dal basso verso l’alto. Non a caso il sistema inquisitorio era – ed è – connaturato ai regimi, che pure hanno sempre conservato una qualche forma di automitigazione dei poteri dell’autorità, in linea di continuità con le monarchie assolute: il suddito era totalmente nelle mani del sovrano, ma poteva sempre sperare nella sua clemenza.
Nel 1989 il nostro Paese archiviò quel sistema e adottò il rito accusatorio. Lo fece per mano di due giuristi antifascisti, Giuliano Vassalli (nella foto) e Giandomenico Pisapia, ancora oggi considerati tra i padri della patria. Il rito accusatorio – adottato nella stragrande maggioranza delle democrazie liberali dell’Occidente – presuppone che la garanzia contro lo strapotere del pm sia la separazione netta tra chi accusa e chi giudica. Una separazione non solo strutturale e funzionale, ma anche, per così dire, culturale. Entrambi, l’accusatore e il giudice, si muovono nella prospettiva della verità.
Ma l’accusatore trae la sua legittimazione dall’interesse della collettività al perseguimento dei reati, e dunque agisce secondo una logica di risultato: indaga per individuare e portare a giudizio il colpevole. Un delitto impunito è, in questa prospettiva, un fallimento. Chi giudica, invece, non persegue alcun risultato. È chiamato solo a valutare la prova, a verificare le condizioni per applicare le sanzioni del codice penale, che non è un manuale di istruzioni per punire presto e bene, ma anzitutto una garanzia per proteggere l’innocente dalla potestà punitiva dello Stato.
Il giudice non partecipa della pulsione dell’accusatore: la sua terzietà non è solo indipendenza funzionale, ma indifferenza culturale all’esito dell’azione penale. Per lui l’assoluzione e la condanna hanno lo stesso valore, poiché il perseguimento del reato è un obiettivo al pari della sua rinuncia a perseguirlo, se ne mancano le condizioni. In entrambi i casi possono rappresentare un successo della giustizia: perché la scoperta del colpevole non sopravanza mai la protezione della libertà individuale.
È questo, per usare una metafora teologica, lo scandalo laico del processo accusatorio. Uno scandalo fondativo della democrazia, che supera tutte le menzogne e le strumentalizzazioni che oggi circondano la riforma della giustizia: quelle di chi la osteggia con spregiudicatezza e, ancor più, di chi la promuove con improntitudine.
Tra questi ultimi il guardasigilli Carlo Nordio, che nelle sue interviste continua a ridurre la riforma a un salutare riequilibrio nei rapporti tra giustizia e politica. Lo ha fatto anche ieri, parlando al Corriere della Sera, quando ha detto che la riforma restituirà alla politica il suo primato costituzionale, facendole «recuperare gli spazi che ha abbandonato rispetto alla giustizia, in modo talvolta codardo».
E a conferma di questa utilità tutta politica della riforma, ha lanciato un invito corporativo a Elly Schlein a condividerla, perché in futuro «potrebbe giovare anche a lei», nel momento in cui dovesse andare al governo. È questo, in realtà, il peggior marketing referendario che si possa fare: confinare la riforma in un regolamento di conti tra magistratura e politica, due istituzioni oggi ugualmente screditate.
Pensare che i cittadini votino “sì” per restituire alla politica ciò che questa ha consegnato alla magistratura è un’idea quantomeno autoreferenziale. La riforma potrà essere compresa e accettata solo se i cittadini capiranno che riguarda loro, non i politici. Perché ciò che riequilibra non è il rapporto tra poteri, ma quello tra il singolo e l’autorità dello Stato. In un Paese che conta uno dei più alti tassi europei di detenuti in attesa di giudizio, dove un imputato su due viene assolto dopo un calvario processuale che dura in media quattro anni solo fino alla sentenza di primo grado, la riforma serve a ristabilire un principio elementare: che lo Stato che ti sveglia di notte con le manette non abbia più armi per provare la tua colpevolezza di quante tu ne abbia per difendere la tua innocenza.
Perché questa parità d’armi sia reale, l’arbitro deve stare alla stessa distanza tra le parti – anzi, deve avere per la fragilità del cittadino una cautela speciale. Solo così la riforma potrà realizzare in concreto la presunzione d’innocenza sancita dall’articolo 27 della Costituzione: non come garanzia formale, ma come salvagente civile che la Carta offre al soggetto più debole nel rapporto tra il cittadino e lo Stato.
Provare a raccontare così la riforma può servire a scacciare dalla mente di molti il fantasma del giudice istruttore. Se poi, a dispetto di tutto, qualcuno lo preferisce ancora alla separazione delle carriere, almeno servirà a capire da quale parte della storia ha scelto di stare: con la democrazia o piuttosto con i regimi.












